sabato 10 gennaio 2015



Mons. Giuseppe La Verde




Nato a Barrafranca il 20 marzo 1919, deceduto il 17 gennaio 2006. Ordinato presbitero il 29 giugno 1945. Direttore Spirituale in Seminario dal 1951 al 1979. Parroco di S. Veneranda e Priore di S. Andrea a Piazza Armerina dal 1954 al 1967. Assistente Diocesano GIAC nel 1969. Parroco della Matrice e Vicario Foraneo di Barrafranca dal 1979 al 1994. Cappellano di Sua Santità il 28 luglio 1961.
Sulla breccia fino all’ultimo, trascinando i piedi ed appoggiandosi al bastone, ma lucido, volitivo, generoso. Fu, sin dal 1953, professore in Seminario insegnando prima alle Medie e successivamente alla facoltà di Teologia, per divenire poi docente di Storia della Chiesa, Ascetica e Mistica. Ma oltre che insegnante di diverse generazioni di presbiteri, è stato anche umile servitore della Chiesa come parroco prima a Piazza Armerina e poi a Barrafranca.
S’é occupato di Azione Cattolica nei vari rami, e lo ha fatto con questo stile, diventando punto di riferimento per le confessioni e la direzione spirituale. E avrebbe potuto dire con S. Paolo: “fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo”. Non ha contrastato mai con nessuno, apprezzando il bene ovunque fosse, aiutando a farlo emergere in ognuno. Non che avesse un carattere flemmatico, ma sapeva controllarsi e riportare ogni prova e difficoltà nell’accettazione-sacrificio a Dio.
Una costante della sua spiritualità per tutta la vita è stata l’accettazione d’ogni evento, anzi del quotidiano anche più insignificante, dalle mani di Dio, unito al sacrificio, alla rinunzia, alla sopportazione delle incomprensioni, dei malesseri fisici. E, ne ha avuti, come tutti, accrescendosi col passare degli anni, ma non lasciandosi mai piegare. Per questo suo animo i Superiori hanno potuto contare su di lui, per compiti difficili, trovando ubbidienza ed accettazione totale. La sua era la mistica della volontà di Dio in quella dei Superiori e nei fatti della vita.
Capire la spiritualità di p. La Verde è capire, in un certo senso, quella dei sacerdoti e dei laici che lui ha formato. Per anni ha insegnato Teologia Ascetica  e Mistica seguendo come testo l’opera in tre volumi del Domenicano p. Garrigou - Lagrange “Le tre età della vita interiore”, quanto di più avanzato esistesse prima del Concilio, che si ispira ai principi teologici di san Tommaso, alla teologia mistica di san Giovanni della Croce e di san Francesco di Sales. Della spiritualità di Sant’Ignazio inculcava “agere contra” agire contrariamente ai propri desideri ed aspirazioni, non se-guire “il mi piace e non piace”, in una purificazione interiore ed esteriore totale per fare “tutto per la Gloria di Dio”. Continuò ad ispirarsi a “La pratica di amare Gesù” e “Le glorie di Maria” di Sant’Alfonso M. Liguori. Completava la devozione alla Madonna “Il Trattato della vera devozione alla Santa Vergine” di s. L. Grignion de Montfort.
Ha recepito il Concilio Vaticano II come sforzo ed anelito al cambiamento della vita di ognuno, al tendere alla perfezione cristiana, fatta di virtù. L’identità sacerdotale era quella condivisa negli anni 50/70, per cui il sacerdote “alter Christus” aveva una sovrannatura ontologica, non solo morale.
I modelli di vita erano il Curato d’Ars, uomo del sacrificio, della rinuncia totale, s. Domenico (dare agli altri quello che s’è contemplato), per dire due nomi che tracciavano la dimensione ascetica personale e quella pastorale.
In queste discorso i1 sacerdote si discostava dal cristiano comune solo per l’intensità e la qualità, Tutti siamo chiamati alla santità ,attraverso il sacrificio, che nella S. Messa ha il suo segno pieno. La vita del cristiano è sacrificio, come è stata la vita di Cristo e dei santi. L’insistere in questo lo poneva fuori tempo. Ne è passata dal 1940 ad oggi acqua sotto i ponti! Lui concepiva la costruzione della persona (non ignorava l’apporto delle scienze psicologiche e pedagogiche) e il senso della responsabilità attraverso l’auto-formazione, cioè la volontà di rinuncia, di auto-modellarsi. Il peccato era l’ostacolo da vincere e tutte le pulsazioni che allontanavano dall’esercizio delle virtù, erano da controllare, modificare, vincere. Ciò che insegnava agli altri, valeva per sé, anzitutto. Questo l’ha reso fedele al suo sacerdozio, agli impegni spirituali e pastorali. Era puntiglioso nel preparare gli incontri con i seminaristi, le omelie, presentando la dottrina ascetica con appunti, schemi, approfondimenti.
L’impegno nella vita spirituale passa dalla conoscenza e questo lui ha curato con attenzione e puntigliosità. C'è una quantità non indifferente di scritti, appunti, quaderni (che ho la fortuna di custodire, avendo acconsentito di darmeli). Fonte della vita di unione con Dio è il silenzio, il raccoglimento interiore, la docilità allo Spirito e alle emozioni. È tutto un mondo intimo in cui solo attraverso gli scritti e la parola si entra. I suoi scritti sono interessanti per questo contatto profondo con il Signore e la sua capacità di sminuzzare i concetti ardui della vita ascetica. Ha mantenuto il fervore, la cura, 1’impegno sino alla fine. Per non abbandonare il lavoro, per non vivere nella casa di parenti, magari servito ma lontano dalle anime, ha preferito vivere in paese da solo, accudito da chi gli ha voluto bene. Ritorno allo spirito di maternità spirituale, che si esprimeva nella comprensione e nella misericordia. Nelle confessioni non era accomodante, ma non si ergeva a giudice. Incoraggiava, esortava, dava indicazioni precise. Era aperto alle innovazioni del momento, cogliendole come attualità e strumenti di aggiornamento pastorale. E per questo che man mano s'è lasciato coinvolgere dal movimento del Mondo Migliore di p. Lombardi, dagli Oasini di p. Rotondi, dal Terzo Ordine Domenicano (aveva iniziato gli studi dai Domenicani), dal FAC: come metodo pastorale, e prima ancora da “Parrocchia Comunità Missionaria” del Michenau. Verso i movimenti ecclesiali non ha avuto esclusione, restando fedele all’Azione Cattolica e ai suoi metodi, promuovendo così il laicato cattolico. Le figure di maggiore spicco della Diocesi sono passate dalla sua direzione spirituale. Negli ultimi anni ha dato servizio in parrocchia e ai neocatecumenali.
Non ci aveva insegnato ad essere eclettici, a sapere come ape raccogliere da mille fiori il nettare da trasformare in miele? Lui c’è riuscito. Il lungo lavorio di perfezione, durato una lunga vita, s’è concluso per “ricevere la corona di gloria dal Signore”.

Salvatore Licata
Don Pino Giuliana

martedì 6 gennaio 2015


Mons. Giovanni Cravotta



Giovanni Cravotta nacque a Barrafranca, da Luigi e Marianna Tummino, il 7 dicembre 1925. Dopo aver completato gli studi delle elementari a Barrafranca, entrò in seminario dove venne ordinato sacerdote il 29 giugno 1948. Poco tempo dopo fu nominato Vicario Cooperatore prima e Parroco della Chiesa Madre di Barrafranca poi, rimanendovi fino alla morte, avvenuta, a Palermo, il 9 giugno 1979. Dal 1951 al 1952 fu insegnante presso il seminario di Piazza Armerina, Assistente GIAC 1951, Vicario Foraneo dal 1961 al 1972, Coordinatore Vocazionale nel 1968, Promotore delle Orsoline a Barrafranca, Assistente in Diocesi e Delegato Vescovile per le Religiose nel 1967.
«Non è facile morire a 54 anni col sorriso sulle labbra, nel pieno vigore delle energie. Era uomo di grande personalità, intelligente, coraggioso, forte, generoso, preparato, pronto a tutte le novità culturali, che non trascurava mai. Era deciso... rivoluzionario, dalle soluzioni radicali, quindi scomodo e, spesso, incompreso. Dall’attivismo eccezionale. Sconosceva i mezzi termini, il parlare sottovoce, diplomatico. Era razionale, dalle grandi passioni per la musica, il teatro, la politica, ma divorato da quella fede incrollabile che non lascia in pace un istante. Era sempre in movimento, organizzava ed insegnava». Così lo ha ricordato l’avv. Giuseppe Bonincontro, nel decimo anniversario della morte.

Padre Cravotta, alle elementari, col maestro Vittorio Guarneri

Colpito da una terribile malattia, padre Cravotta non ne ebbe timore, anzi la affrontò col sorriso sulle labbra, con un sorriso amaro per il dispiacere di lasciare i suoi fedeli, ma con la certezza di avere bene operato, con la certezza di chi ha speso la propria esistenza al servizio di Dio.
Moltissimi lo amarono profondamente, pochi non lo compresero. Padre Cravotta era uomo di grande personalità e intelligenza, pronto a tutte le novità culturali, che non trascurava mai.
Uomo rivoluzionario, dalle soluzioni radicali, quindi scomodo: sconosceva il senso diplomatico delle relazioni, il savoir faire, i mezzi termini, il parlare con la voce ovattata dei sacerdoti di una volta, i discorsi morbidi e suadenti.
Era un razionale, dalle grandi passioni, per la musica, per il teatro, la politica, ma divorato da una fede incrollabile, che non lo lasciava in pace un solo istante: era sempre in movimento, organizzava ed insegnava.
Ripeteva spesso che vivere da cristiani significa essere uomini di rottura, pietra di scandalo.
Diceva sempre - e lo fece anche nell’ultima omelia: “State attenti, quando il vostro comportamento piace a tutti, c’è qualcosa in voi che non va; perché non si può piacere a Dio e al suo nemico”, ricordando l’insegnamento dell’apostolo delle genti, San Paolo, nella sua lettera ai Galati: “Se ancora piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo”.
Questa è la chiave di lettura di tutta la sua vita.
Il suo impegno pastorale non ebbe mai tregua. Si alzava alle 6 del mattino ed andava a letto a mezzanotte, lavorando senza sosta, correndo sempre, perché era convinto che la Chiesa non poteva restare estranea alla società costituita, alle istituzioni civili, alla realtà che la circonda, non poteva restare estranea alla lotta contro la mafia e contro il mal costume amministrativo e politico, al di fuori di ogni retorica.
«Ricordo - scrive l’avv. Bonincontro -, lo scontro personale con un mamma santissima, al quale aveva pestato i calli. Tornavamo verso casa per il corso Vittorio Emanuele ed incontrammo questo personaggio, il quale gli si parò davanti, dicendogli che doveva cambiare strada e metodo e non impicciarsi in certe faccende, altrimenti gli avrebbe fatto passare dei guai. Padre Cravotta gli sorrise e gli rispose con una semplicità disarmante: “Io continuerò la mia missione; Lei non mi fa paura, non può farmi paura, perché io dalla mia parte ho il Signore, che è anche il Suo Signore”. La discussione finì lì, ma la battaglia continuò».
Padre Cravotta intuì che per potere incidere nella realtà sociale e modificarla era necessario preparare dei giovani e per questa ragione cercò di spingere quanti più giovani poté, uomini e donne nel mondo sociale e nel mondo politico.
Organizzò e riorganizzò tutti i movimenti dell’A. C., costituì ed attivò il Comitato Civico attirando masse di giovani, tenendo conferenze dappertutto, preparando e gestendo corsi in ogni parte della Diocesi, corsi di formazione religiosa e di formazione professionale in tutti i campi.
Costituì la S. Vincenzo nella nostra città con l’assistenza a casa di tutti i poveri, gli ammalati e gli anziani.
Diede battaglia contro l’indifferenza in ogni angolo del paese, in ogni bottega, in ogni circolo, in ogni crocevia.
Nominato parroco, con la valida collaborazione del giovane Cappellano padre Bonfirraro, la parrocchia diventò veramente un centro attivo di evangelizzazione.
Insegnò per un certo periodo presso il nostro Seminario. Si dedicò con continuità e abnegazione alle vocazioni ecclesiastiche e al pre-seminario, ed alla istituzione della Compagnia di S. Orsola, di cui divenne il primo superiore diocesano. Una struttura solida, permanente, per operare in profondità.


Mons. Cravotta mentre distribuisce la prima Comunione

Altra iniziativa rivoluzionaria di mons. Cravotta fu la proposta di vita comunitaria fra tutti i confratelli: la Canonica della Chiesa Madre divenne così la casa comune di tutti i sacerdoti, i quali mettevano in comune tutto: i propri guadagni, le proprie delusioni, le proprie speranze per trarne maggiore impulso e linfa nuova per l’attività del giorno dopo.
Altra iniziativa rivoluzionaria, che non trovò seguito, fu la proposta fatta a tutti gli intellettuali di buona volontà, e appartenenti a tutti i colori politici senza discriminazione alcuna, di creare delle commissioni di studio in modo da costituire delle amministrazioni ombra che studiassero le soluzioni dei problemi più importanti della cittadinanza, proponendone i risultati alle amministrazioni e alla cittadinanza, spronando tutti, amministratori e cittadini alla realizzazione sollecita delle decisioni. Il tutto sulla base del volontariato e della competenza professionale.
A questo periodo seguì il periodo della operosità senza sosta: costruire, costruire, costruire. Il restauro della chiesa Madre, nei anni ’70, è il frutto del lavoro incessante di padre Cravotta: lavorava giorno e notte, a volte, per preparare e copiare progetti per evitare la scadenza di un finanziamento. Opera sua è anche la costruzione della Canonica e della Casa del Sacerdote.
Padre Giovanni non aveva nulla quando si consacrò al Signore e morì senza lasciare nulla. Ha applicato alla lettera l’insegnamento di Cristo “Non vogliate accumulare tesori sulla terra dove la ruggine e la tignola consumano e i ladri risotterrano e rubano: ma fatevi dei tesori in Ciclo”.

Al Suo esempio, alla sua parola, al suo insegnamento sono state educate diverse generazioni. Lasciò un patrimonio umano e spirituale inestimabile, che fu raccolto e valorizzato dal suo successore, mons. Giuseppe La Verde, il quale continuò la sua opera molto lodevolmente, con impegno e abnegazione. Padre Giovanni ha lasciato delle opere che parleranno ai posteri per sempre. Noi abbiamo perduto un grande Sacerdote, ma abbiamo la certezza di avere un Santo amico, in Paradiso.
Salvatore Licata

lunedì 5 gennaio 2015


Don Giuseppe Bonfirraro



Giuseppe Bonfirraro nasce a Barrafranca il 13 marzo del 1939, da padre contadino e madre casalinga. Dopo gli studi classici, entra nel seminario vescovile di Piazza Armerina (EN) dove viene ordinato sacerdote, il 28 giugno 1964, da S.E. Rev.ma Mons. Antonino Catarella.
All’inizio del suo mandato pastorale fu inviato ad esercitare il suo ministero presso la chiesa Madre di Barrafranca come vice parroco e contemporaneamente insegna religione cattolica negli istituti scolastici di Gela.
Nel settembre 1987, viene nominato parroco della chiesa di Maria SS. della Stella, dove si dedica a tempo pieno al culto della Madonna, patrona di Barrafranca. Durante il suo ministero sacerdotale fu un grande prete, gioviale, generoso, disponibile e preparato. E questa sua gioia di vivere non gli venne meno nemmeno quando un male maligno cominciò a minargli il corpo e l’anima. Nonostante le sofferenze, a volte atroci, egli continuava a svolgere il suo ministero e a dedicarsi ai suoi parrocchiani.
«La sua esistenza - scrive Gaetano Vicari, suo grande amico -, è stata accompagnata per molti anni dalla malattia, che egli ha trascurato per gli impegni del suo ministero sacerdotale, al quale consacrava tutto se stesso, con una dedizione totale. Non ricordo in quanti ospedali sia stato ricoverato, o quanti interventi, sempre più lunghi e dolorosi, abbia subito: ogni volta però ritornava, come ricaricato di novello fervore, per dedicare la sua vita alla gente, specialmente ai bisognosi.»
«Nonostante i numerosi impegni pastorali - scrive Gaetano Vicari -, riusciva a trovare sempre un po’ di tempo da dedicare alla pittura, per la quale nutriva tanto amore e tanta passione. Mi resterà sempre impresso nella memoria il suo tocco leggero… il suo modo tutto particolare di sfiorare la tela con il pennello…»
I suoi esordi artistici (avvenuti nel 1960) si collocano nel solco di una pittura figurativa dove prevale la spontaneità, il sentimento e la fede in Dio.
Innamorato della natura, e per i cavalli in particolare, trasfonde questa sua passione in numerosi quadri che, assieme a quelli con tema religioso, costituiscono la maggiore produzione pittorica.
Alle mostre cui partecipava riceveva lusinghieri consensi sia dal pubblico che dalla critica più attenta. «Le sue opere - ebbe a scrivere un critico -, si possono definire ricche di sentimento e i suoi quadri sono da considerarsi, quasi solitamente, l’insieme di piccoli mondi creati precedentemente e poi riuniti in un’unica opera.»
«Nei sui quadri - scrive Eleonora Vernasca -, crea dei piccoli mondi: così come la creazione è il risultato di parecchie creazioni in cui la precedente è sempre compiuta dalla seguente, un suo quadro è un insieme armonico formato da una serie di quadri sovrapposti in cui ogni particolare si aggiunge alla realtà e la innalza di un grado verso la perfezione, così che l’universo visibile non diviene altro che un caledoscopico magazzino di immagini, sensazioni, segni.»
Don Bonfirraro, nel corso degli anni, si scopre anche valente ritrattista espressivo, tanto che numerosi parrocchiani, ma anche estimatori, gli richiedono il ritratto di un proprio congiunto e don Giuseppe non diceva mai di no. E a proposito dei suoi ritratti così ebbe a scrivere il critico F. Rossi: «Ritrattista incisivo, Giuseppe Bonfirraro sa raggiungere effetti singolari in quelle opere che rappresentano interrogativi inquietanti che testimoniano la sua appartenenza all’area della pittura figurativa più attuale e aderente alla condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Più che un’espressione concettuale del visivo, il suo mondo poetico coglie la presenza della quotidianità in cui le cose vivono, esaltando l’incidenza della luce sulle superfici e sui piani a scandire il fluire del tempo.»



Gesù di Zeffirelli
(olio su tela)


Altra lusinghiera critica l’ebbe da E. Moro: «Di estrazione fedelmente realistica, la figurazione di Giuseppe Bonfirraro non rinuncia tuttavia a conferire alle immagini un valore altamente simbolico che ne qualifichi la valenza morale e ne accresca la pregnanza comunicativa volta ad esprimere un contenuto di chiara e a volte esplicita leggibilità . Il fattore illuministico che non rifugge da effetti di grande efficacia espressiva quali improvvisi bagliori e controluce, diviene in tale contesto determinate quale strumento di rivelazione della forma che assume evidenza plastica nell’incisività del colore deciso e dei contrasti, nonché nel dinamismo compositivo accentuato dal gesto spesso tramutato in atteggiamento carico di un più che evidente significato che si vuole porre senza mediazioni o infingimenti alla comprensione di tutti.»
Ma di don Bonfirraro, oltre a quelli citati, si sono occupati anche altri critici tra cui: Laura Capellini, G. Tenghi Scinardo, Roberto Mangione, Guglielmo Ara, Antonio Napolitano, Giuseppe Citro, Carmine Manzi, Giuseppe Bonincontro, Angioletta Giuffrè, Maria Vittoria Borghese e Luigi Barbaro.
Numerose le mostre a cui ha partecipato ottenedo sempre lusinghiere critiche e numerosi premi, sia in Italia che all’estero.
Per la sua produzione artistica e per le sue benemerenze nel campo dell’arte è stato incluso, honoris causa, nell’annale degli Artisti Celebri, Grandi Opere da Collezione, dell’Ente Europeo Manifestazioni d’Arte.
Numerosi anche i riconoscimenti ottenuti nel corso della sua carriera artistica.
Nel 1975 viene nominato accademico di merito, sezione arti, presso l’Accademia Internazionale di Pontzen, con attestato dell’8/11/1975.
Nel 1981 viene nominato accademico di merito, sezione arti, presso l’Accademia Internazionale Costantiniana, con attestato del 15/1/1981.
Altri riconoscimenti furono quello di: Senatore Accademico dell’Istituto Superiore Internazionale di Studi Umanistici; Maestro Accademico dell’Accademia dei Maestri, castello di Pralboino (Brescia); Professore honoris causa in Discipline Umanistiche della Interamerican University of Humanistic Studies, rilasciato dal rettorato per l’area europea, Statuto dell’Istituto Europeo di Cultura, Calvalone (Crotone); Socio benemerito dell’Associazione Culturale Regionale “amici del presepio”.
Nel 2000 fonda la Corale Polifonica interparrocchiale "Maria SS. della Stella" di Barrafranca, la quale oggi è formata da trenta artisti.
«Padre Bonfirraro - afferma Vicari -, rivive in ogni suo quadro, creato con una sensibilità artistica fuori dal comune: in ogni suo dipinto c’è un pezzetto della sua vita, con la sua gioia, il suo tormento, la sua serenità, la sua indignazione, la sua sofferenza, e soprattutto la sua fede profonda.»
Don Giuseppe muore il 16 dicembre 2009.
SALVATORE LICATA
GAETANO VICARI



Cavalli allo stato brado

(olio su tela)

martedì 30 dicembre 2014

Giovanni Eraldo Candura

Giovanni Eraldo Candura, nasce a Barrafranca il 15 marzo 1903 dal professor Francesco, insegnante elementare, e da Marianna Romano. Laureatosi, nel marzo del 1926, in Ingegneria civile a Napoli, dal 1927 al 1929 fu assistente ordinario di Topografia, Costruzioni rurali e Meccanica agraria presso la Facoltà di Agraria.
Nel 1934 conseguì la libera docenza in Meccanica agraria e insegnò, dal 1939 fino alla sua morte, presso le Università di Perugia, Bari e Napoli. Dal 1946 al 1949 fu preside della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bari ed ebbe l’incarico di riorganizzarne la Facoltà. Nel 1954 diventa preside della Facoltà di Agraria della stessa Università, incarico che ricopre fino al 1960.
La carriera universitaria e scientifica di Giovanni Candura fu un continuo susseguirsi di successi e di prestigiosi incarichi.
Dal 1946 al 1959 rappresentò il Governo Italiano alla Commission Internationale du Genie Rural.
Dal 1955 al 1958, diresse, a Torino, il Centro Nazionale Meccanico-agricolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Eletto, nel 1964, presidente dell’Associazione Italiana di Ingegneria Agraria, mantenne tale carica fino alla morte. Nello stesso anno fu nominato membro del Comitato direttivo della Commission Internationale du Genie Rural e, l’anno successivo, fu Capo della Delegazione Italiana presso il Gruppo di Meccanizzazione Agricola dell’ONU.
Progettò importanti opere di trasformazione fondiaria dei Borghi di Policoro; di Perrone e di Conca d’oro; della Centrale ortofrutticola di Taranto; della Cantina cooperativa di Tricarico; ecc. Esplorò tutti i campi della tecnologia applicata all’agricoltura in più di cento monografie a carattere scientifico. Fu il primo a presentare dei lavori riguardante l’aratro talpa, le macchine per la raccolta dei foraggi, dei cereali e delle leguminose che furono largamente riprodotti e commentati all’estero.
L’attività del professor Candura non fu intensissima solo nel campo degli studi e della ricerca, ma anche nell’organizzazione di congressi, convegni e incontri di studio. Gli studi che maggiormente lo videro impegnato in prima persona furono quelli riguardanti l’aratro e i suoi succedanei; l’aratura a profondità variabile; l’efficienza delle trattrici agricole; gli impianti di sollevamento dell’acqua a scopo irriguo; il fabbisogno di energia nella agricoltura; le attrezzature connesse alle costruzioni rurali e la tecnica applicata all’agricoltura.
In riconoscenza degli studi compiuti e dei numerosi anni dedicati all’insegnamento, il professor Giovanni E. Candura fu insignito di molte onorificenze: Medaglia d’oro al Merito della Scuola e della Cultura, Commendatore e Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Commendatore dell’Ordine di San Silvestro, Socio corrispondente dell’Accademia dei georgofili di Firenze, Presidente fondatore della sezione pugliese dell’ATA.
Ma oltre che benemerito della scuola e della cultura, Giovanni E. Candura si distinse anche nella vita politica. Nel 1924, infatti, fu promotore, assieme a Gino Novelli, di una raccolta di fondi “pro corona Matteotti”. Ciò gli valse non pochi guai col partito fascista. L’elenco dei sottoscrittori, da lui conservato, infatti, non si sa come, andò a finire alla Federazione fascista di Enna la quale prese dei provvedimenti limitativi e restrittivi delle attività professionali dei sottoscrittori.
Giovanni Eraldo Candura muore a Napoli il 10 aprile 1967.
Salvatore Licata
Don Luigi Giunta



Luigi Giunta nasce a Barrafranca l’8 ottobre 1881 da Vincenzo e da Antonina Di Dio, operosa famiglia di agricoltori. Dopo avere studiato presso il Seminario Vescovile di Piazza Armerina, fu ordinato sacerdote da monsignor Mario Sturzo, vescovo della Diocesi, il 21 novembre 1903, a Mazzarino.
Nel 1906 fu vicario cooperatore della Parrocchia Maria SS. della Purificazione di Barrafranca; rettore della chiesa di San Giuseppe (dal 3 aprile 1931); vicario economo della Parrocchia Maria SS. della Purificazione (dall’8 febbraio 1933) e, dal 22 gennaio 1934, parroco della stessa chiesa (allora unica parrocchia), successivamente elevata a chiesa Madre.
Don Luigi Giunta si distinse per la condotta lineare e l’altissima religiosità, che a volte lo faceva diventare anche burbero e rude; profondo e ineccepibile era in lui il senso della onestà: volle essere povero e vivere in una casa sotto le tegole come gliela aveva lasciata il padre.
Per seguire questo ideale di vita evangelica, quando si accorse di operazioni non consentite dallo statuto, si dimise dalla Cassa Rurale di allora. In quella circostanza gli fu offerta una ingente somma di denaro, ma egli rifiutò dicendo: «Povero sì, ma con le mani pulite e la coscienza netta».
Il parroco Giunta custodiva personalmente, a casa sua, l’oro del SS. Crocifisso e mai risultarono ammanchi. Nessuno mai tentò di profanare la sua casa o di infastidire l’illustre ospite anche se anziano.
Durante la terribile epidemia della “spagnola” del 1918 e di “meningite cerebro-spinale” del 1929, si prodigò, sfidando i pericoli del contagio, per aiutare moralmente e spiritualmente le migliaia di cittadini colpiti dal morbo.
Durante i due bombardamenti del luglio 1943, incurante della morte, amministrò l’estrema unzione alle vittime inermi di una guerra esecranda. Mentre diceva Messa, anche la sua chiesa fu investita dal bombardamento e lui, incurante dei crolli, si buttò tra le macerie per salvare la gente che era rimasta disperatamente intrappolata. Per tutti aveva una parola di conforto e di incoraggiamento.
Subito dopo si impegnò nella ricostruzione della chiesa con la parola e con l’esempio, per sensibilizzare la cittadinanza, che concorse generosamente per riavere ricostruita la “sua” chiesa Madre.
Entrati gli americani, con coraggio si presentò a loro per scongiurarli di liberare due prigionieri tedeschi, che erano stati legati per i piedi e appesi a testa in giù. Gli americani, purtroppo, non accolsero le preghiere del Parroco, ma ne ammirarono il coraggio tanto da attribuirgli la Croce di Commendatore dell’Ordine Militare d’Aragona.
Per questi atti di coraggio e di abnegazione fu apprezzato e stimato da tutti.
Il parroco Giunta, oltre che uomo di chiesa, fu anche uomo di vastissima cultura: scrisse poesie in latino e in italiano; racconti; un romanzo; una satira e due bellissime tragedie liriche: Il Conte Ugolino della Gherardesca, in tre atti, e Sant’Agnese, in quattro atti; tutti andati irrimediabilmente perduti.


  Il parroco don Luigi Giunta durante una cerimonia al Villaggio UNRRA
affiancato (a sx) dal sindaco dottor Vittorio Mattina e (a dx) da mons. Giovanni Faraci


    L’opera principale, però, è costituita da Brevi cenni storici su Barrafranca pubblicata nel 1928, dove Luigi Giunta profuse tutta la propria passione e il proprio rigore scientifico nel ricostruire la storia del paese natio. Nel corso delle sue ricerche, sempre severe e puntigliose, Giunta seppe comporre un’opera storica che, a tutt’oggi, rappresenta una pietra miliare del passato di Convicino prima e di Barrafranca poi.
Con grande perizia e intelligenza don Luigi Giunta riuscì a ricostruire e a illuminare un passato ormai dimenticato e lontano: opera, questa, che ha rappresentato, per molti studiosi, una preziosa fonte storica.
In questo stesso periodo collaborò alla rivista “La Siciliana” di Siracusa, dove pubblicò diversi articoli sulla storia di Convicino e dove difese con rigore scientifico, ma anche con passione, le sue asserzioni a seguito di alcuni dubbi sollevati dallo scrittore Salvatore De Maria. Questi infatti avanzava il sospetto che la Villa Comiciana poteva benissimo riferirsi a Comiso o a Comitini anziché a Convicino. Alla replica del Giunta, sulla stessa rivista, il De Maria non ebbe più nulla da obiettare.
Durante le ricerche, condotte soprattutto presso gli archivi parrocchiali, si batté anche per la rifondazione della biblioteca comunale, dove aveva catalogato numerose opere antiche e manoscritti, ma le sue richieste rimasero inascoltate.
Nonostante questi impegni di natura letteraria e storica e nonostante la stima e gli onori tributatigli dai suoi concittadini e dalle autorità, egli condusse il resto della sua vita con rigore e umiltà, al servizio della comunità e della chiesa. Molti lo ricordano seduto sul sagrato della chiesa Madre, attento osservatore della vita barrese e testimone sincero della fede in Cristo, che ispirò la sua vita fino agli ultimi istanti, tanto da dettare in punto di morte parole di perdono e di speranza: «Perdono tutti coloro che mi sono stati nemici e sono contento di ricongiungermi a Dio». Era il 27 novembre 1966.
A venti anni di distanza, l’Amministrazione e il Consiglio comunale vollero ricordare questo degnissimo figlio di Barrafranca con una lapide posta a perenne memoria e a riconoscimento dei suoi alti meriti umani, culturali e religiosi.
Salvatore Licata
ROCCO INGRIA


Rocco Ingria nasce a Barrafranca il 18 gennaio 1912 da Emilio e da Silvia Angeli Coarelli. Sposatosi, il 26 ottobre del 1949, con Rosalia Presti, insegnante elementare di Aidone, ha avuto due figlie: Silvia e Vera.
Trascorre la sua prima gioventù a Palermo, presso i padri Salesiani, dove inizia gli studi liceali; studi che abbandona per conseguire, da autodidatta, la maturità magistrale a Piazza Armerina. Favorevolmente attratto dal mondo classico continua, in privato, a leggere tutto quello che trova sugli autori latini e greci, arricchendo così la propria cultura umanistica.
Dopo il diploma, va ad insegnare sulla Sila, in Calabria, poi, per qualche anno, a Calascibetta e, infine, a Barrafranca, dove rimarrà sino alla morte.
La scuola e lo studio gli rubano molto tempo ma, ciò nonostante, trova il tempo di occuparsi attivamente di politica militando nel Partito comunista italiano nel quale, aiutato dalla facile propaganda e dalla sua efficace e convincente oratoria, trascinò una considerevole massa di contadini. Nonostante questa sua fede politica, Ingria rimase molto vicino ai cattolici, tanto da mettere il Crocifisso all’interno della sezione e, nel periodo di Natale, prepararvi la novena.
«Rocco Ingria - scrive il professor Salvatore Ciulla -, non fu mai ideologicamente marxista. Si era schierato nella lotta politica a fianco di quel partito per un vecchio astio nei confronti della principessa Deliella, che egli ora voleva colpire al cuore attraverso le lotte contadine per lo spezzettamento del feudo e l’assegnazione delle terre ai braccianti e ai mezzadri. (...) Tanto è vero che Rocco non appena si vide, immeritatamente, un tantino messo da parte dalle gerarchie del partito, passò il “Rubicone” e si iscrisse alla Democrazia cristiana, con grave scandalo dei suoi ex compagni».
Muore, prematuramente, a Barrafranca, a soli 54 anni, il 15 ottobre 1966.
Dagli scritti di Rocco Ingria (Le Ceneri, Cantare è vivere, Gli ultimi folli); traspare chiara la cultura classica che è componente essenziale della formazione e della visione del mondo del poeta, anche se il riferimento agli antichi, sempre più vago e sfuggente, diventa spontaneo e serve a dare all’immagine, nuova e ardita, una suggestione particolare.
Oltre alle citate opere, Ingria pubblicò in “Uomini del nostro tempo” (Fiorenza Ed., Padova 1942) le liriche Marcia della Giovinezza. Di questi versi, purtroppo, non se ne trova traccia.
Malgrado le inesperienze, le effusioni, le diffusioni della sua prima ed acerba produzione, sin dal principio l’Ingria ha insistito su alcuni motivi di sentimento che poi era destinato a ripulire, a spogliare dalla ganga o dalle muffe e incrostazioni, per offrirli alla luce incontaminati e privi di imitazioni letterarie. E bisogna riconoscere che questo continuo rincorrere la propria poesia il poeta l’ha saputo attuare in maniera magistrale.
Nel poema Le Ceneri, in opposizione a I Sepolcri, dove il Foscolo elogia la sepoltura, la tomba, come mezzo per perpetuare il ricordo in eterno, Rocco Ingria auspica la cremazione per evitare la corruttibilità e la putrescibilità del corpo. Il poema, in versi liberi, fu pubblicato una prima volta nel 1937 ed era composto di circa 200 versi; nel 1940 esce una seconda edizione, ampliata a 300 versi, per conto dell’editore Fiorenza di Padova; infine, nel 1949, Rocco Ingria pubblica la versione definitiva, composta da oltre due mila versi.


Le Ceneri
nell’edizione del 1949


«Concependo e lirizzando Le Ceneri - scrive Rocco Ingria -, abbiamo voluto riaprire e chiudere un ciclo di letteratura, che ebbe nel Foscolo il più alto e sublime poeta». Nel suo poema, infatti, il poeta implora la cremazione dei corpi per dare il dono dell’incorruttibilità alla salma. «Il sepolcro - continua Ingria -, se non serra incorrotta salma è inutile e denso di pianto, per la terrificante consunzione del corpo. (...) Attorno a questa direttrice, substanziata dal Cristianesimo operante, dal dolore particolare all’universale, dall’Urna alla Salma, dal Mondo al Cosmo, tutto è cenere e sarà cenere».
In Cantare è vivere la poesia si fa più viva, più ricca di sentimenti umani; poesia che non si ferma alle apparenze, ma le oltrepassa perché in possesso della realtà che non è circostanziata e perciò diminuita, ma ampliata dal flusso delle umane vicende.
O Bruno, sprezzanti t’imposero tra / fiamme di gemme, la grande fiamma / che l’incenerisse, quelli, i pezzenti, / i ribelli graveolenti e ributtanti. / Tanti e tanti, poveri e derelitti / afflitti senza pane e senza casa / (...) / O Bruno, m’è fisso nel cuore il tuo / sguardo, fiero e possente, che dice ‘no’ / e scegliesti gli oppressi ad essi desti / una speranza ed una gran certezza. / Incenerirli? / Come, quando, perché Bruno, forse che / non siamo tutti creature di Dio?... (A Pontecorvo).
Via via la realtà si dissolve, si riduce a fuggitiva apparenza, traspare una sottile malinconia che, però, non si traduce mai in disperazione. La dissolvenza dei toni è dissolvenza di un paesaggio umano che gradualmente va spegnendosi nell’animo del poeta.
E in Luce e tenebre alza lo sguardo al cielo: Immensa, alterna tenebra, Signore! / Che dolore per l’alterno fluire / di luce e buio, che disperazione. / Credere e non credere e palpitare / d’angoscia che attanaglia cuor e pensier...
Credere e non credere, il grave dubbio; ed invoca Sempre Dio...: Dio, Dio e sempre voi dite, Dio... / non movete foglia che lui non voglia. / Dio in alto, in alto nell’immenso / del firmamento o nel fondo dei mari. / Dio sempre Dio ovunque vedete / e d’una fola vivete ed irridete / chi al vostro invisibile dio non crede. / Dio vede tutto? Dio vi guarda? Eppur che insensibile nume, Dio!...
Il messaggio poetico dell’Ingria è tanto più pressante e accorato, quanto più si muta e degrada l’ambiente naturale e culturale che è alla base della sua ispirazione, ma subisce una accentuazione di toni quando questo messaggio è rivolto verso i propri affetti, alla mamma. Ed ecco allora Bedda: Da noi Siculi ardenti a la fiamma / ch’assomma cor, bellezza, fragranza / Aroma di tutte le essenze, aitanza / di tutte le genti - e - a la mamma / felici e giulivi - coi brividi si dice: / ‘Bedda’ / Eppur tu di tutte le belle ‘bedda’ / di quelle di noi l’ovale del viso / il dolce sorriso, gli occhi profondi / i neri fulgenti capelli, i palpiti hai.
È facile sentirlo come un fratello, un contemporaneo, per l’apparente sregolatezza del suo linguaggio che invece è molto sottile e meditato. Ma oltre che sapere annodare le vicende più intime, più sofferte, Rocco Ingria sa parlare anche dell’amore, quello terreno, fatto di sensualità e di dolcezza, di scanzonata allegria e di palpitante tenerezza. Eccolo in Neofita: Ti piace? Sì, mi dicesti accesa / e ritentaron le labbra l’impudica / carezza... Oh che ebbrezza bimba / davi donata mai, mai più amata. / Vogliosa miravi piccola neofita / i misteri amorosi e l’occhio / lucea tutto e ti stringevi, gemevi / e mi piacevi più in quel mite / mugolio voluttuoso e nel dondolio / osceno ed insaputo o pupa. / Ti piace? Si dicevi e ridevi / d’un riso breve e lieve un velo / di pianto - tersa vela bianca - / veloce trasmigrava palpitante.
Oppure in Canzone a Nora: Non so che m’innamori / di te - di più - di più e sempre. / Il viso recline, l’ovale soave / del volto o quel fine sorriso? / Non so, non so, mai saprò / perché m’accendo così, perché. / Perché / tanto s’estasia il mio cuore!
Rocco Ingria, nella sua breve ma intensa vita, oltre che di poesia si occupa anche di teatro. Nella commedia Gli ultimi folli, traspare il suo impegno sociale, l’amore per la giustizia, quella vera, non quella usata ed abusata che a volte porta alla pazzia: Ecco. La pazzia è quistione di giustizia. Sì, di giustizia sociale! Di grande giustizia!. Dura condanna ad una società corrotta, disposta al sacrificio (degli altri) pur di vincere.
Scorrendo i dialoghi di questa commedia, certe soluzioni di scrittura, sia come rottura linguistica ed espressiva sia come opposizione ideologica molto radicale nei confronti dell’ambiente culturale che gli sta attorno, fanno di Rocco Ingria un caso singolare.

Salvatore Licata

domenica 28 dicembre 2014


Angelo Ligotti






Angelo Ligotti nasce a Barrafranca il 18 novembre 1910 da Onofrio e da Giuseppina Piazza. Sposatosi, nel 1948, con Anna Trubia, ha avuto un figlio, Onofrio. Ultimo di sei figli (Giuseppina, Maria, Benedetto, Rosa e Rosalia), Angelo Ligotti, compiuti regolari studi si iscrive a Medicina presso l’Università di Catania dove consegue la laurea in Medicina e Chirurgia il 1° novembre 1937. Si abilita, presso l’Università di Padova nel 1938 e, nel 1939, presso la stessa Università, si specializza in Malariologia ed in Igiene pubblica. Lo stesso anno è chiamato a dirigere il Laboratorio Provinciale d’Igiene e Profilassi, reparto micrografico, di Pola (Istria), incarico che però, nel 1940, è costretto a lasciare in quanto richiamato, come tenente medico, alle armi presso il 74° Fanteria di Pola.
Promosso capitano, nel 1942, viene assegnato alla direzione del laboratorio batteriologico dell’isola di Arbe (Dalmazia).
Nel corso della seconda guerra mondiale, Angelo Ligotti partecipa a diverse azioni belliche con il 2° battaglione del 74° Fanteria, con la 57° sezione di sanità e con il 63° ospedale da campo, meritando 3 Croci di guerra.
Dopo breve malattia, Angelo Ligotti muore a Barrafranca il 17 dicembre del 1984.
Nonostante il conflitto, il lavoro e l’amore per la  ricerca portano Angelo Ligotti ad approfondire i propri studi in campo sanitario, e batteriologico in particolare, tanto che le sue intuizioni furono oggetto di pubblicazione. La malattia di Aujeszky (o pseudorabbia, malattia virale del suino causata da un Varicellovirus); Sulla filtrabilità del bacillo di Koch (Mycobacterium tuberculosis, bacillo responsabile, nell’uomo, della tubercolosi); Sulla dissociazione batterica del bacillo di Eberth nei portatori (affetti cioè da febbre tifoidea provocata dal batterio della Salmonella); O jednom slucaju limfosarkoma rektuma (linfosarcoma rettale); Un caso di malattia di Aujeszki; Contributo sullo studio del tifo petecchiale (trasmesso dai pidocchi, ne è responsabile la Rickettsia prowazekii); furono lavori di notevole valore scientifico che incontrarono il favore del mondo scientifico di allora.
Tornato alla vita civile, consegue l’idoneità a medico provinciale e, dopo aver vinto il concorso a medico provinciale di ruolo, esercita le sue funzioni a Bologna, a Ragusa e alla direzione generale di sanità di Roma. Posto di fronte al dilemma tra una brillante carriera scientifica e l’amore per il proprio paese, Angelo Ligotti non ha dubbi: rinuncia alla carriera per fare l’ufficiale sanitario e il medico condotto a Barrafranca.
La grande passione per la storia e l’archeologia, però, gli fecero abbandonare le vie scientifiche cui aveva dedicato parecchio tempo e non poche fatiche. Ogni pietra, ogni coccio, ogni buco scavato nella roccia, rappresentavano per Ligotti una pagina di storia scritta secoli e secoli prima. Completamente attratto da questi studi, non perdeva occasione per intrufolarsi (anche durante le vacanze fatte assieme alla moglie) in una biblioteca o in un archivio a sfogliare documenti o atti che potessero fare luce sul passato del nostro territorio.
Le sue intuizioni lo portarono ad approfondite investigazioni e ricerche che divennero argomento di studio. Collaborò con Paolo Orsi in moltissime ricerche della Sicilia orientale. Fu anche con Biagio Pace, impegnato in una serie di indagini archeologiche in centri romani dell’Isola. A tal proposito, il Ligotti ebbe a scrivere sul “Giornale d’Italia”: «La luminosa giornata vissuta interamente ed intensamente accanto all’illustre archeologo Biagio Pace che proveniente dalla sua Comiso è venuto a Mazzarino ospite graditissimo del Sindaco Siciliano, della sua gentile consorte, di personalità ed amatori, ha avuto alla fine il gradito epilogo quando al ritorno dall’interessante gita a Sofiana (...) abbiamo avuto la sicurezza di collocare Philosophiana tra le città conosciute». Da queste parole traspare l’uomo, lo scienziato, l’amante appassionato della sua terra.
Numerosi sono gli studi pubblicati, tra il 1950 e il 1960, da Angelo Ligotti per la Società Siciliana per la Storia Patria o per l’Accademia Nazionale dei Lincei, che «rappresentano - scrive Litterio Villari -, un primo serio apporto sia alla ricostruzione storica di fatti e di avvenimenti verificatisi in antico nell’alta valle del Gela, e sia alla identificazione di alcuni toponimi di età sicula, greca e romana».
Numerose, dicevamo, furono le pubblicazioni che videro la luce nel corso dei suoi studi storici e archeologici. Prima fra tutte:
Topografia antica del “Casale” presso Piazza Armerina, dove il nostro storico fa uno studio accurato e scientifico della topografia del territorio dove si trova il Casale della villa romana. A questa pubblicazione seguirono:
Note sulla Chiesa di S. Niccolò “in territorio Commecini”, dove si descrive la corretta identificazione della chiesa, apparsa per la prima volta in un diploma del 1125, in passato posta “falsamente” in diverse parti della Sicilia, ma che in realtà deve localizzarsi nei pressi del bivio Sitica, dove sorge la vecchia casa Guerreri.
Note su Philosophiana e Calloniana alla luce di nuovi rinvenimenti archeologici ci descrive, con minuzia di particolari, i praedia di Philosophiana e Calloniana che si trovavano lungo l’antico Itinerarium Antonini, il tracciato cioè che congiungeva Catania con Agrigento.
Barrafranca (Enna) - Rinvenimenti archeologici nel territorio, panoramica descrittiva e fotografica dei rinvenimenti fatti, nel corso degli anni, nel territorio attorno al nostro centro abitato.
Notizie su Convicino (L’Hibla Galatina sicula, la Calloniana romana), detta poi Barrafranca, attraverso nuovi documenti, è di sicuro l’opera più importante di Angelo Ligotti, anche se noi non condividiamo qualche sua ipotesi. Sul sito di Convicino, infatti, molto è stato detto e molti sono stati gli storici che hanno creduto di individuarlo definitivamente. Per la verità l’unica cosa certa, e qui siamo d’accordo con Angelo Ligotti che non mostra dubbi, è che Convicino altro non è che la Calloniana di epoca romana, detta anche Ghalwàliya da Aziz Ahmad, Ghalûlia o Ghallûlia da Michele Amari. Dove, invece, non siamo d’accordo col Ligotti è quando, nel ricostruire i vari periodi storici di Barrafranca, e nell’identificare i siti, afferma che Calloniana sorse su un precedente Casale denominato Hibla Galeota o Galatina. Nel libro in questione, infatti, l’autore scrive testualmente: «Ora al nostro centro abitato, documentato da antichi diplomi dell’XI sec., che affonda le sue radici in un abitato romano e nella Galata interna sicula colonizzata dai greci, detta anche “Hibla Galeota” o “Galatina”, e che vitale in epoca Bizantina...» dando per certo il toponimo di Hibla al luogo dove poi sorse Calloniana. Diverse le tesi sostenute e i siti individuati da storici come Erodoto, Tucidide, Pausania e Stefano Bizantino. Quest’ultimo, addirittura parla dell’esistenza di tre Hible localizzandole, rispettivamente, nei pressi di Augusta, di Ragusa e di Paternò. Secondo noi, invece, l’antico toponimo greco di Hibla Galeota, o Geleotis come qualcuno la chiama, nulla ha da spartire con la nostra Calloniana o col nostro Convicino. La confusione della localizzazione del sito nel nostro territorio, sicuramente, sarà sorta da una trasposizione dell’Hybla Galeoti di Stefano Bizantino accomunata al feudo Galati e nulla più.
Su Grassuliato e su altri abitati dell’interno, e sul significato del nome “Bonifatius”, rinvenuto al “Casale”, ci ricorda l’importante centro abitato, “sorto come tanti altri abitati dalla disgregazione di un vasto predio romano-bizantino” e che successivamente decade fino a scomparire definitivamente.
Identificazione definitiva di Calloniana ripercorre un po’ i temi trattati in “Notizie su Convicino” soffermandosi sui motivi e sulla scientificità delle sue ipotesi per quando riguarda l’identificazione del sito ove sorse la Calloniana romana e delle sue attinenze con Convicino.
Barrafranca (Enna) - Rinvenimenti nel territorio si occupa dei reperti archeologici rinvenuti all’interno dell’abitato di Barrafranca e nel territorio circostante.
Note sul Risorgimento Siciliano con appendice di documenti inediti su uno sbarco Garibaldino (1854-1857) saggio sul risorgimento siciliano dove il Ligotti sostiene alcune tesi che si discostano dalla storiografia ufficiale e ci fanno vedere gli avvenimenti accaduti sotto un’altra luce.
Discussioni di storiografia siciliana medioevale, dove l’Autore contesta il fatto “che la storia della Sicilia, dalla prima metà del sec. XIV fino a tutto il XVIII ed oltre, sia caratterizzata da un lungo periodo di decadenza, durante il quale l’isola, come conseguenza della guerra del Vespro, sia rimasta estranea a tutta la vita italiana ed europea, isolandosi ed infiacchendosi in ogni forma di vita”.
Sul presunto toponimo aragonese di Grassuliato, breve saggio dove disquisisce sul toponimo di Grassuliato che, secondo lui, dovrebbe essere di origine araba o bizantina, mentre Adamesteanu, noto archeologo, lo vorrebbe aragonese.
La penetrazione cristiana nella zona di Barrafranca, Piazza, Pietraperzia e Mazzarino secondo le recenti scoperte, ricostruzione della penetrazione cristiana nel territorio di Barrafranca fatta attraverso i rinvenimenti archeologici.
Anche se non sempre ci troviamo d’accordo con alcune sue ipotesi, non possiamo non riconoscere la serietà degli studi e il rigore scientifico che caratterizzano tutte le opere del Ligotti. Ogni sua scoperta veniva meticolosamente vagliata; e solo quando aveva la certezza delle fondamenta delle proprie teorie metteva al corrente storici e archeologi di chiara fama, come Biagio Pace, Gino Vinicio Gentili e Ross Holloway, della Brown University.
A conferma della validità dei suoi studi, il ministero della Pubblica Istruzione, direzione generale delle accademie e biblioteche, con decreto ministeriale del 21 marzo 1960, nomina, per il triennio 1960/63 Angelo Ligotti Ispettore bibliografico onorario per le biblioteche dei Comuni di Barrafranca, Mazzarino, Gela e Butera, compresi nella circoscrizione della Soprintendenza bibliografica di Palermo. La carica gli viene riconfermata con decreto ministeriale del 18 maggio 1964.

Il dott. A. Ligotti, a sx, mentre riceve il Barrese d’Oro
dal vice prefetto di Enna dott. Gentile.

Per la serietà degli studi, archeologici prima e storici poi; e la notorietà assunta in campo nazionale, furono conferite al dottor Angelo Ligotti numerose onorificenze, tra cui, ricordiamo: Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica italiana; Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia; Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Giorgio di Antiochia; Grand’Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro; Accademico della biblioteca partenopea di Lettere, scienze ed arti; Socio delle Società di Storia Patria di Palermo, Catania, Siracusa, Messina e Napoli.
Angelo Ligotti, oltre che corrispondente di autorevoli riviste scientifiche, storiche, archeologiche e paleografiche, tra cui le riviste “Archivi” e “L’Alfiere”, è stato corrispondente dell’Accademia dei Lincei, delle Società di Storia Patria e dei rispettivi Archivi storici.

Salvatore Licata