ROCCO INGRIA
Rocco Ingria nasce a Barrafranca il 18
gennaio 1912 da Emilio e da Silvia Angeli Coarelli. Sposatosi, il 26 ottobre
del 1949, con Rosalia Presti, insegnante elementare di Aidone, ha avuto due figlie:
Silvia e Vera.
Trascorre la
sua prima gioventù a Palermo, presso i padri Salesiani, dove inizia gli studi
liceali; studi che abbandona per conseguire,
da autodidatta, la maturità magistrale a Piazza Armerina. Favorevolmente
attratto dal mondo classico continua, in privato, a leggere tutto quello che
trova sugli autori latini e greci, arricchendo così la propria cultura
umanistica.
Dopo il
diploma, va ad insegnare sulla Sila, in Calabria, poi, per qualche anno, a
Calascibetta e, infine, a Barrafranca, dove rimarrà sino alla morte.
La scuola e
lo studio gli rubano molto tempo ma, ciò nonostante, trova il tempo di
occuparsi attivamente di politica militando nel Partito comunista italiano nel
quale, aiutato dalla facile propaganda e dalla sua efficace e convincente
oratoria, trascinò una considerevole massa di contadini. Nonostante questa sua
fede politica, Ingria rimase molto vicino ai cattolici, tanto da mettere il
Crocifisso all’interno della sezione e, nel periodo di Natale, prepararvi la
novena.
«Rocco Ingria - scrive il professor
Salvatore Ciulla -, non fu mai ideologicamente marxista. Si era schierato
nella lotta politica a fianco di quel
partito per un vecchio astio nei confronti della principessa Deliella,
che egli ora
voleva colpire al cuore attraverso le lotte contadine per lo spezzettamento del
feudo e l’assegnazione delle terre ai braccianti e ai mezzadri. (...) Tanto è
vero che Rocco non appena si vide, immeritatamente, un tantino messo da parte
dalle gerarchie del partito, passò il “Rubicone” e si iscrisse alla Democrazia
cristiana, con grave scandalo dei suoi ex compagni».
Muore,
prematuramente, a Barrafranca, a soli 54 anni, il 15 ottobre 1966.
Dagli scritti
di Rocco Ingria (Le Ceneri, Cantare
è vivere, Gli ultimi folli);
traspare chiara la cultura classica che è componente essenziale della
formazione e della visione del mondo del poeta, anche se il riferimento agli
antichi, sempre più vago e sfuggente, diventa spontaneo e serve a dare
all’immagine, nuova e ardita, una suggestione particolare.
Oltre alle
citate opere, Ingria pubblicò in “Uomini del nostro tempo” (Fiorenza Ed.,
Padova 1942) le liriche Marcia della Giovinezza. Di questi versi,
purtroppo, non se ne trova traccia.
Malgrado le inesperienze, le effusioni, le
diffusioni della sua prima ed acerba produzione, sin dal principio l’Ingria ha
insistito su alcuni motivi di sentimento che poi era destinato a ripulire, a spogliare dalla ganga
o dalle muffe e incrostazioni, per offrirli alla luce incontaminati e privi di
imitazioni letterarie. E bisogna riconoscere che questo continuo rincorrere la propria poesia il poeta l’ha
saputo attuare in maniera magistrale.
Nel poema Le Ceneri, in opposizione a I
Sepolcri, dove il Foscolo elogia la sepoltura, la tomba, come mezzo per
perpetuare il ricordo in eterno, Rocco Ingria auspica la cremazione per evitare
la corruttibilità e la putrescibilità del corpo. Il poema, in versi liberi, fu
pubblicato una prima volta nel 1937 ed era composto di circa 200 versi; nel
1940 esce una seconda edizione, ampliata a 300 versi, per conto dell’editore
Fiorenza di Padova; infine, nel 1949, Rocco Ingria pubblica la versione definitiva,
composta da oltre due mila versi.
Le Ceneri
nell’edizione del 1949
«Concependo e lirizzando Le Ceneri - scrive Rocco
Ingria -, abbiamo voluto riaprire e chiudere un ciclo di letteratura, che ebbe nel Foscolo il più alto e sublime poeta». Nel suo
poema, infatti, il poeta implora la cremazione dei corpi per dare il dono
dell’incorruttibilità alla salma. «Il sepolcro - continua Ingria -, se non
serra incorrotta salma è inutile e denso di pianto, per la terrificante
consunzione del corpo. (...) Attorno a questa direttrice, substanziata dal
Cristianesimo operante, dal dolore particolare all’universale, dall’Urna alla
Salma, dal Mondo al Cosmo, tutto è cenere e sarà cenere».
In Cantare è vivere la poesia si fa più
viva, più ricca di sentimenti umani; poesia che non si ferma alle apparenze, ma
le oltrepassa perché in possesso della realtà che non è circostanziata e perciò
diminuita, ma ampliata dal flusso delle umane vicende.
O Bruno, sprezzanti t’imposero tra / fiamme
di gemme, la grande fiamma / che l’incenerisse, quelli, i pezzenti, / i ribelli
graveolenti e ributtanti. / Tanti e tanti, poveri e derelitti / afflitti senza
pane e senza casa / (...) / O Bruno, m’è fisso nel cuore il tuo / sguardo,
fiero e possente, che dice ‘no’ / e scegliesti gli oppressi ad essi desti / una
speranza ed una gran certezza. / Incenerirli? / Come, quando, perché Bruno,
forse che / non siamo tutti creature di Dio?... (A Pontecorvo).
Via via la
realtà si dissolve, si riduce a fuggitiva apparenza, traspare una sottile
malinconia che, però, non si traduce mai in disperazione. La dissolvenza dei
toni è dissolvenza di un paesaggio umano che gradualmente va spegnendosi nell’animo
del poeta.
E in Luce e
tenebre alza lo sguardo al cielo: Immensa, alterna tenebra, Signore! / Che dolore per l’alterno fluire / di
luce e buio, che disperazione. / Credere e non credere e palpitare / d’angoscia
che attanaglia cuor e pensier...
Credere e non credere, il grave dubbio; ed invoca Sempre Dio...:
Dio, Dio e sempre voi dite, Dio... / non movete foglia che lui non voglia. /
Dio in alto, in alto nell’immenso / del firmamento o nel fondo dei mari. / Dio
sempre Dio ovunque vedete / e d’una fola vivete ed irridete / chi al vostro
invisibile dio non crede. / Dio vede tutto? Dio vi guarda? Eppur che
insensibile nume, Dio!...
Il messaggio
poetico dell’Ingria è tanto più pressante e accorato, quanto più si muta e
degrada l’ambiente naturale e culturale che è alla base della sua ispirazione,
ma subisce una accentuazione di toni quando questo messaggio è rivolto verso i
propri affetti, alla mamma. Ed ecco allora Bedda: Da noi
Siculi ardenti a la fiamma / ch’assomma cor, bellezza, fragranza / Aroma di tutte
le essenze, aitanza / di tutte le genti - e - a la mamma / felici e giulivi -
coi brividi si dice: / ‘Bedda’ / Eppur tu di tutte le belle ‘bedda’ / di quelle
di noi l’ovale del viso / il dolce sorriso, gli occhi profondi / i neri
fulgenti capelli, i palpiti hai.
È facile
sentirlo come un fratello, un contemporaneo, per l’apparente sregolatezza del
suo linguaggio che invece è molto sottile e meditato. Ma oltre che sapere
annodare le vicende più intime, più sofferte, Rocco Ingria sa parlare anche
dell’amore, quello terreno, fatto di sensualità e di dolcezza, di scanzonata allegria e di palpitante tenerezza. Eccolo in Neofita: Ti piace?
Sì, mi dicesti accesa / e ritentaron le labbra l’impudica / carezza... Oh che
ebbrezza bimba / davi donata mai, mai più amata. / Vogliosa miravi piccola
neofita / i misteri amorosi e l’occhio / lucea tutto e ti stringevi, gemevi / e
mi piacevi più in quel mite / mugolio voluttuoso e nel dondolio / osceno ed
insaputo o pupa. / Ti piace? Si dicevi e ridevi / d’un riso breve e lieve un
velo / di pianto - tersa vela bianca - / veloce trasmigrava palpitante.
Oppure in Canzone a Nora: Non so che
m’innamori / di te - di più - di più e sempre. / Il viso recline, l’ovale soave
/ del volto o quel fine sorriso? / Non so, non so, mai saprò / perché m’accendo
così, perché. / Perché / tanto s’estasia il mio cuore!
Rocco Ingria,
nella sua breve ma intensa vita, oltre che di poesia si occupa anche di teatro.
Nella commedia Gli ultimi folli,
traspare il suo impegno sociale, l’amore per la giustizia, quella vera, non
quella usata ed abusata
che a volte porta alla pazzia: Ecco. La pazzia è quistione di giustizia. Sì,
di giustizia sociale! Di grande giustizia!. Dura condanna ad una società
corrotta, disposta al sacrificio (degli altri) pur di vincere.
Scorrendo i dialoghi di questa commedia, certe soluzioni di scrittura,
sia come rottura linguistica ed espressiva sia come opposizione ideologica
molto radicale nei confronti dell’ambiente culturale che gli sta attorno, fanno
di Rocco Ingria un caso singolare.
Salvatore Licata
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