venerdì 27 giugno 2014

Gino Novelli





Gino Novelli
Gino Novelli, pseudonimo di Gaetano Ciulla, nasce a Barrafranca il 10 aprile 1899 da Calogero, notaio, e da Maria Stella Ingria. Dopo le elementari, frequenta a Palermo il Ginnasio e il Liceo Classico e si iscrive a Giurisprudenza. Una iniqua malattia, che lo mina fisicamente e moralmente, però, lo costringe ad abbandonare gli studi intrapresi. Ciò, gli dà modo di dedicarsi totalmente a quella che è la sua vera passione: la poesia.
Sposatosi, il 25 giugno 1923, con Maria Teresa Ippolito, figlia del medico condotto Angelo, trascorre i primi anni del matrimonio a Barrafranca dove, nel 1928, nasce Giugiù (Calogero). Qualche anno dopo, si trasferisce a Palermo con la famiglia e qui, nel 1930, nasce il secondogenito Ninì (Angelo).
Grazie alla profonda stima di cui gode e alla sua formazione culturale e religiosa, viene assunto dai Padri Gesuiti come bibliotecario presso il collegio “Luigi Gonzaga”, dove studiano i figli Giugiù e Ninì.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, dopo i bombardamenti di Palermo, Gino Novelli e la sua famiglia ritornano a Barrafranca e vi rimangono fino alla caduta del fascismo.
Ritornato a Palermo, Gino Novelli riprende la sua attività di giornalista e di scrittore, ma a seguito della malattia della moglie, ritorna nuovamente a Barrafranca ed è qui che, nel 1953, muore la sua adorata Teresa.
Il poeta con la moglie Maria Teresa e il piccolo Giugiù
Risposatosi, il 17 settembre 1956, con la cognata Concetta Tirone, vedova Ippolito, e madre di Maria Teresa, Gino Novelli si trasferisce a Catania nel 1962, e vi rimane fino alla morte che avviene il 12 aprile 1975.
Democratico per natura e per formazione, Gino Novelli fin da giovane milita nel Partito popolare di don Sturzo. Nel 1924, subito dopo la morte di Giacomo Matteotti, trucidato dai fascisti, si fa promotore, assieme a Giovanni Candura e ad altri amici, della raccolta di fondi per la collocazione di una corona di bronzo sulla tomba dell’esponente socialista.
Alla caduta del fascismo, Novelli è, assieme ai vecchi esponenti del Partito popolare, tra i fondatori della Democrazia cristiana siciliana e stringe rapporti di amicizia con importanti uomini politici del suo partito, quali Antonio Segni, Giorgio La Pira, Piero Bargellini, Guido Gonella, Salvatore Aldisio e Bernardo Mattarella.
Il lungo soggiorno a Palermo, inoltre, gli dà modo di frequentare, oltre che importanti esponenti politici (a cui mai nulla ebbe a chiedere), i salotti letterari e di collaborare con i più importanti quotidiani italiani: “L’Avvenire d’Italia”, “Il Quotidiano”, il “Giornale di Sicilia”, mentre la direzione di “La Sicilia del Popolo”, organo siciliano della Democrazia cristiana, lo nomina responsabile della terza pagina. Nel 1946, la direzione nazionale de “Il Popolo”, addirittura, gli offre la direzione della redazione milanese del quotidiano democristiano, ma a causa della sua malattia, rifiuta cortesemente. Così come rifiuta l’opportunità offertagli dall’on. Salvatore Aldisio, ministro dei Lavori Pubblici: la direzione della sua segreteria particolare.
Trasferitosi a Catania, inizia la collaborazione con “La Sicilia” e, per oltre un ventennio, con “L’Osservatore Romano”.
Contrario a qualsiasi forma di notorietà e al contatto diretto con la folla a causa della malattia, contro la quale era costretto a lottare continuamente, ebbe a scrivere una volta: «Vi sono periodi di tempo che io mi allontano dal mondo, perché costretto a vivere, a tu per tu, col dolore e a scandagliare fino alle radici l’essenza del dolore, e sono momenti ora bui, ora luminosi, che si passano in un letto di tormento, in cui mai il sonno si posa...».
Poeta, narratore, critico, saggista e giornalista poliedrico (tanto da essere definito da Salvatore Quasimodo, col quale era in fraterni rapporti, «maestro della penna»), Gino Novelli partecipa, negli anni più arcanisti della poesia italiana (1927-1937), al movimento letterario di Pietro Mignosi, che «si contrappone – scrive Giovanna Finocchiaro Chimirri -, ad una forma di immanentismo articolantesi nell’idealismo crociano in estetica e nel frammentarismo in letteratura». A questa corrente il movimento mignosiano sostituisce la cosa al discorso attraverso la «scoperta di legami cosmici e caritativi». Ed è in questa chiave che collabora come caporedattore alla rivista di Storia, Filosofia e Letteratura «La Tradizione» e alla rivista di poesia «Lumi», di cui fu fondatore e direttore, e contribuisce alla nascita della nuova poesia religiosa italiana.
Prolifica, anche, la produzione poetica del Novelli: Questa è la vita, L'eterna favola, Tremori, Rosario, Fiamma votiva.
Cercare l’essenziale in una comunione immediata e povera: questo è il segreto del poeta.
«Povera! Ecco una chiave. Perché se religiosa è la forma dell’arte, religiose devono essere le sue virtù particolari. Poesia è povertà. Quell’essenzialità espressiva che dice il dicibile senza girarvi attorno e senza gonfiar la voce. Antiretorica ed antieloquenza. Poesia è preghiera. Perché è comunicazione e comunione compiute nel clima più diafano e vibratile». Così scriveva Pietro Mignosi a Gino Novelli mentre dava alle stampe la raccolta di poesie Migliore Stella. «La religiosità del poeta - scriveva Andrea Tosto De Caro -, consiste, infatti, nell'accettare la inevitabile legge della vita, nel sentirsi felice della sua stessa amarezza, quasi dono di Dio che lo travaglia attraverso la povertà onde purificarlo».
Gino Novelli, con Migliore Stella, appare più vicino al dolore e all’amore, disposto a modificarsi con una libertà di accenti sinceri; concetti, tutti, che aveva già iniziato a sviluppare nell’opera antologica La nuova poesia religiosa italiana, opera che lo rese noto al grosso pubblico.

E intanto altre opere vengono alla luce: In fondo alle tenebre, Finestra sulla notte, Fiume della mia vita, S. Ignazio di Lojola, Colloqui, L’Angelo, L’istanza del divino, oggi.
In quest’opera, Novelli afferma che “la religiosità deve essere non testimonianza di parole, ma di opere, in ispirito di totale servizio. Non parlare, ma vivere, in una documentazione quotidiana, intellegibile anche dai più lontani e ignari, della autenticità del Cristianesimo. Lasciar penetrare il Mistero della nostra vita, fino ad essere fatti noi stessi mistero agli altri.”
Scorrendo le liriche della maturità il poeta ci appare più intimo, più raccolto, padrone di se e della parola, fedele alle sue premesse, alle sue promesse. E ciò è un merito, poiché i poeti sogliono svolgersi, divenire, sviluppare alcuni profondi motivi che rimangono pur sempre costanti: il poeta più che creare deve afferrare, ripulire, portare alla luce qualcosa che già esiste, un mondo interiore che ha cominciato a formarsi sin dall’infanzia. Gino Novelli si è creato uno stile, non rozzo e nemmeno troppo ricercato, spesso tutto giuocato su delicate sfumature quasi femminee. Né la sua padronanza della tecnica versiliberistica può essere seriamente contestata, e la sua naturalezza, cui egli «ricorre», come sua unica fonte, ci appare propria della moderna poesia.
Angelo Anzioso nella prefazione a L’eterna favola ebbe a scrivere: «poche linee, abbozzi di caratteri, accenni di passione, gridi di coscienza, singhiozzi d’anima, schianti di spirito e spesso un insistere su particolari e un sorvolare su quel che, per altri, sarebbe stato interessante allargare in un’analisi: ecco la prerogativa di Gino Novelli il quale ha molto sofferto per le incongruenze della vita, il quale non ha saputo adattarsi al mondo artificioso che lo circonda».
Ricorrente è nel Novelli quell’ispirarsi ad una solitudine che è la sua pena, non sollecitata che dalla malinconia dell’irraggiungibile: questi i punti essenziali del suo dramma di uomo e di cattolico.
Camminavo lungo le strade aspre e scoscese, / per farmi conoscere dagli uomini. / Bussavo a tutte le porte. / E le porte, irte di chiodi, / mi laceravano le mani gonfie di gelo. / Nessuno mi dava la voce. Nessuno mi apriva. / Ero povero e nudo! (Fratello).
Quasi si tocca con mano la sensazione del suo dramma giornaliero e della sua lotta per vivere.
Lo stesso motivo lo troviamo in Poeta: Era solo. Aveva tanta fame. / Seduto sulla gradinata di una chiesa / lacero, misero, malato, / chiedeva l’elemosina, / e sentiva nel cuore tanta musica, / tanta tenerezza, / come se una orchestra d’angeli / suonasse per lui / e per la sua tristezza... Lo stesso in Desiderio: Signore, io voglio soffrire / come sempre ho sofferto. / Giorno per giorno: orribilmente. / Perché se fossi sano, ricco, felice, / che cosa potrei offrire al Tuo amore / di più veramente mio?
Ad un tratto ode interiormente la chiamata misteriosa di un essere di cui ascolta La Voce: Io non so quale voce ascoltare. / Non so quale voce seguire. / Tante ne arrivano al mio orecchio stanco. / Tu mi dici: Ascolta la più vicina, / la più pura. / Io sento il mio bambino che chiama: ‘Padre!’ / E anch’io dico: ‘Padre!’ e m’inginocchio / sulla nuda terra.
I suoi affetti di padre hanno riferimenti in Dio, come la sua tristezza di vivere.
Il dialogo con Dio è un altro motivo ricorrente in Novelli, uomo ricco di fede. Eccolo in Fede: Il sangue parte dal cuore e nel cuore ritorna. / L’acqua parte dal cielo e nel cielo ritorna. Io mi distaccai da Te, mio Dio / e vago per le strade del mondo / senza pensare che a Te devo ritornare.
Più viva si fa la sua ansia religiosa in Dimmi chi sono: Signore dimmi chi sono. / Di terra mi nutro, nutrimento della terra sarò. / Rombo sordo sento / e ardere di vene. / Le mie mani, e la bocca, e questi occhi, / sono segnati, rosi dal peccato / (...) / Non fu vero vedere, non fu amare. / Riconoscimi, Signore, / da questo amaro cuore.
E poiché ci sono infiniti modi di parlare a Dio, è ovvio che il Novelli parli a Dio secondo la legge di questa sensibilità.
Ecco una porta nel cielo / e il petto s’alluna, / può fiorire la sera nel mio cuore. / O voce di silenzio chi sei? / Posa la tua ombra / sul mio sangue d’uomo! / Ora (passi lievi ascolto). Qualcuno è con me. / Dentro di me, / e mi parla... (Colloqui).
Sentendo Dio vicino a se, esclama il poeta (ed è il verso più bello): Può fiorire la sera nel mio cuore (Colloqui). Sera che fiorisce, con fiori notturni, e la presenza di Dio, si identifica con tale sera. Un modo malinconico di sentire Dio.
I versi si fanno meno ispirati quando il poeta chiede a Dio la luce dell’azzurro (in opposizione al buio): ...Non  odi la mia voce? / Salvami, Signore! / Irrompi nelle tenebre / portami con Te in un eterno azzurro. In questa lirica, Preghiera, ciò che veramente riesce poetica è la parte negativa: Prigioniero sono / di questo dolore grande, / verme in grembo di montagna...
Il Novelli non prende a prestito dalle poetiche altrui, non ha mai obbedito a compromessi letterari, né a quelli politici. È rimasto sempre un isolato volontario, un frammento dell'infinito che si unisce all’Eterno.
«L’accogliere la mestizia vespertina - scriveva Aldo Capasso -, essere attratto dalle ore conturbate o conturbanti, (il notturno plenilunio, l’occaso, lo scendere della sera) in cui pare che l’anima della creatura spesso con una sottile angoscia, cerchi l’appoggio di un essere superiore, a cui confidarsi e da cui impetrare un bisbiglio, un accenno benigno, è un altro dei motivi ricorrenti: Muore il giorno nel mare e nelle vie. / Sui tetti / balenii di luce: che si spegne stanca. / Sovrumano silenzio dell’immensa sera! / Voci mi chiamano da remote plaghe. / Vagano nei sospesi spazi ombre e fantasmi. / La terra finisce nel mare. / Affonda il cuore nella sera (Dio). E ancora: Scende la sera con armonie di stelle / in onde fa espandere l’umano cuore / verso richiami di orizzonti / che non hanno tramonti né aurore. / Placide campane mondi celesti scalano / di secoli defunti parole spargono vaste, / sulle cose vive e buie. / Ravvolto così d’oblio il mondo attonito / nel cielo altissimo s’immerge e affonda (Naufragio)».
In altri versi, nota ancora Aldo Capasso, «il temperamento del Novelli sembra quasi desideroso di struggersi, godendo di obliarsi nell'incantesimo serale (anche quando esso ha qualcosa d’angosciato), godendo talora di sciogliere in lacrime il nodo aspro, e forse vano, della consueta volontà quotidiana».
Personaggio molto schivo, riservato, apparentemente estraneo alla vita sociale, Gino Novelli ha vissuto intimamente i fermenti culturali del nostro tempo, trasfondendoli sulle pagine delle sue liriche, tanto che ne viene fuori «un mondo fatto di affetti e di sentimenti - scrive Finocchiaro Chimirri -, espresso in una forma di poesia genuina che, attingendo alle scaturigini più pure e costanti del sentire umano, si salda a Dio».
Caduto nell’ansia e nella prostrazione per l’acuirsi del male, smise di scrivere e a chi gli chiedeva il motivo di questa decisione, rispondeva: «Gino Novelli è morto, ora si aspetta la morte di Gaetano Ciulla».
«Fu come se la linfa vitale - scrive Jole Virone -, che alimentava la sua continua creazione, il suo stesso io vivente, si esaurisse di colpo».

Per i meriti letterari acquisiti, l’Accademia Teatina per le Scienze di Chieti (1965) e l’Accademia Tiberina di Roma (1966) hanno annoverato Gino Novelli tra i loro soci.
Salvatore Licata

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