martedì 30 dicembre 2014

Giovanni Eraldo Candura

Giovanni Eraldo Candura, nasce a Barrafranca il 15 marzo 1903 dal professor Francesco, insegnante elementare, e da Marianna Romano. Laureatosi, nel marzo del 1926, in Ingegneria civile a Napoli, dal 1927 al 1929 fu assistente ordinario di Topografia, Costruzioni rurali e Meccanica agraria presso la Facoltà di Agraria.
Nel 1934 conseguì la libera docenza in Meccanica agraria e insegnò, dal 1939 fino alla sua morte, presso le Università di Perugia, Bari e Napoli. Dal 1946 al 1949 fu preside della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bari ed ebbe l’incarico di riorganizzarne la Facoltà. Nel 1954 diventa preside della Facoltà di Agraria della stessa Università, incarico che ricopre fino al 1960.
La carriera universitaria e scientifica di Giovanni Candura fu un continuo susseguirsi di successi e di prestigiosi incarichi.
Dal 1946 al 1959 rappresentò il Governo Italiano alla Commission Internationale du Genie Rural.
Dal 1955 al 1958, diresse, a Torino, il Centro Nazionale Meccanico-agricolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Eletto, nel 1964, presidente dell’Associazione Italiana di Ingegneria Agraria, mantenne tale carica fino alla morte. Nello stesso anno fu nominato membro del Comitato direttivo della Commission Internationale du Genie Rural e, l’anno successivo, fu Capo della Delegazione Italiana presso il Gruppo di Meccanizzazione Agricola dell’ONU.
Progettò importanti opere di trasformazione fondiaria dei Borghi di Policoro; di Perrone e di Conca d’oro; della Centrale ortofrutticola di Taranto; della Cantina cooperativa di Tricarico; ecc. Esplorò tutti i campi della tecnologia applicata all’agricoltura in più di cento monografie a carattere scientifico. Fu il primo a presentare dei lavori riguardante l’aratro talpa, le macchine per la raccolta dei foraggi, dei cereali e delle leguminose che furono largamente riprodotti e commentati all’estero.
L’attività del professor Candura non fu intensissima solo nel campo degli studi e della ricerca, ma anche nell’organizzazione di congressi, convegni e incontri di studio. Gli studi che maggiormente lo videro impegnato in prima persona furono quelli riguardanti l’aratro e i suoi succedanei; l’aratura a profondità variabile; l’efficienza delle trattrici agricole; gli impianti di sollevamento dell’acqua a scopo irriguo; il fabbisogno di energia nella agricoltura; le attrezzature connesse alle costruzioni rurali e la tecnica applicata all’agricoltura.
In riconoscenza degli studi compiuti e dei numerosi anni dedicati all’insegnamento, il professor Giovanni E. Candura fu insignito di molte onorificenze: Medaglia d’oro al Merito della Scuola e della Cultura, Commendatore e Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Commendatore dell’Ordine di San Silvestro, Socio corrispondente dell’Accademia dei georgofili di Firenze, Presidente fondatore della sezione pugliese dell’ATA.
Ma oltre che benemerito della scuola e della cultura, Giovanni E. Candura si distinse anche nella vita politica. Nel 1924, infatti, fu promotore, assieme a Gino Novelli, di una raccolta di fondi “pro corona Matteotti”. Ciò gli valse non pochi guai col partito fascista. L’elenco dei sottoscrittori, da lui conservato, infatti, non si sa come, andò a finire alla Federazione fascista di Enna la quale prese dei provvedimenti limitativi e restrittivi delle attività professionali dei sottoscrittori.
Giovanni Eraldo Candura muore a Napoli il 10 aprile 1967.
Salvatore Licata
Don Luigi Giunta



Luigi Giunta nasce a Barrafranca l’8 ottobre 1881 da Vincenzo e da Antonina Di Dio, operosa famiglia di agricoltori. Dopo avere studiato presso il Seminario Vescovile di Piazza Armerina, fu ordinato sacerdote da monsignor Mario Sturzo, vescovo della Diocesi, il 21 novembre 1903, a Mazzarino.
Nel 1906 fu vicario cooperatore della Parrocchia Maria SS. della Purificazione di Barrafranca; rettore della chiesa di San Giuseppe (dal 3 aprile 1931); vicario economo della Parrocchia Maria SS. della Purificazione (dall’8 febbraio 1933) e, dal 22 gennaio 1934, parroco della stessa chiesa (allora unica parrocchia), successivamente elevata a chiesa Madre.
Don Luigi Giunta si distinse per la condotta lineare e l’altissima religiosità, che a volte lo faceva diventare anche burbero e rude; profondo e ineccepibile era in lui il senso della onestà: volle essere povero e vivere in una casa sotto le tegole come gliela aveva lasciata il padre.
Per seguire questo ideale di vita evangelica, quando si accorse di operazioni non consentite dallo statuto, si dimise dalla Cassa Rurale di allora. In quella circostanza gli fu offerta una ingente somma di denaro, ma egli rifiutò dicendo: «Povero sì, ma con le mani pulite e la coscienza netta».
Il parroco Giunta custodiva personalmente, a casa sua, l’oro del SS. Crocifisso e mai risultarono ammanchi. Nessuno mai tentò di profanare la sua casa o di infastidire l’illustre ospite anche se anziano.
Durante la terribile epidemia della “spagnola” del 1918 e di “meningite cerebro-spinale” del 1929, si prodigò, sfidando i pericoli del contagio, per aiutare moralmente e spiritualmente le migliaia di cittadini colpiti dal morbo.
Durante i due bombardamenti del luglio 1943, incurante della morte, amministrò l’estrema unzione alle vittime inermi di una guerra esecranda. Mentre diceva Messa, anche la sua chiesa fu investita dal bombardamento e lui, incurante dei crolli, si buttò tra le macerie per salvare la gente che era rimasta disperatamente intrappolata. Per tutti aveva una parola di conforto e di incoraggiamento.
Subito dopo si impegnò nella ricostruzione della chiesa con la parola e con l’esempio, per sensibilizzare la cittadinanza, che concorse generosamente per riavere ricostruita la “sua” chiesa Madre.
Entrati gli americani, con coraggio si presentò a loro per scongiurarli di liberare due prigionieri tedeschi, che erano stati legati per i piedi e appesi a testa in giù. Gli americani, purtroppo, non accolsero le preghiere del Parroco, ma ne ammirarono il coraggio tanto da attribuirgli la Croce di Commendatore dell’Ordine Militare d’Aragona.
Per questi atti di coraggio e di abnegazione fu apprezzato e stimato da tutti.
Il parroco Giunta, oltre che uomo di chiesa, fu anche uomo di vastissima cultura: scrisse poesie in latino e in italiano; racconti; un romanzo; una satira e due bellissime tragedie liriche: Il Conte Ugolino della Gherardesca, in tre atti, e Sant’Agnese, in quattro atti; tutti andati irrimediabilmente perduti.


  Il parroco don Luigi Giunta durante una cerimonia al Villaggio UNRRA
affiancato (a sx) dal sindaco dottor Vittorio Mattina e (a dx) da mons. Giovanni Faraci


    L’opera principale, però, è costituita da Brevi cenni storici su Barrafranca pubblicata nel 1928, dove Luigi Giunta profuse tutta la propria passione e il proprio rigore scientifico nel ricostruire la storia del paese natio. Nel corso delle sue ricerche, sempre severe e puntigliose, Giunta seppe comporre un’opera storica che, a tutt’oggi, rappresenta una pietra miliare del passato di Convicino prima e di Barrafranca poi.
Con grande perizia e intelligenza don Luigi Giunta riuscì a ricostruire e a illuminare un passato ormai dimenticato e lontano: opera, questa, che ha rappresentato, per molti studiosi, una preziosa fonte storica.
In questo stesso periodo collaborò alla rivista “La Siciliana” di Siracusa, dove pubblicò diversi articoli sulla storia di Convicino e dove difese con rigore scientifico, ma anche con passione, le sue asserzioni a seguito di alcuni dubbi sollevati dallo scrittore Salvatore De Maria. Questi infatti avanzava il sospetto che la Villa Comiciana poteva benissimo riferirsi a Comiso o a Comitini anziché a Convicino. Alla replica del Giunta, sulla stessa rivista, il De Maria non ebbe più nulla da obiettare.
Durante le ricerche, condotte soprattutto presso gli archivi parrocchiali, si batté anche per la rifondazione della biblioteca comunale, dove aveva catalogato numerose opere antiche e manoscritti, ma le sue richieste rimasero inascoltate.
Nonostante questi impegni di natura letteraria e storica e nonostante la stima e gli onori tributatigli dai suoi concittadini e dalle autorità, egli condusse il resto della sua vita con rigore e umiltà, al servizio della comunità e della chiesa. Molti lo ricordano seduto sul sagrato della chiesa Madre, attento osservatore della vita barrese e testimone sincero della fede in Cristo, che ispirò la sua vita fino agli ultimi istanti, tanto da dettare in punto di morte parole di perdono e di speranza: «Perdono tutti coloro che mi sono stati nemici e sono contento di ricongiungermi a Dio». Era il 27 novembre 1966.
A venti anni di distanza, l’Amministrazione e il Consiglio comunale vollero ricordare questo degnissimo figlio di Barrafranca con una lapide posta a perenne memoria e a riconoscimento dei suoi alti meriti umani, culturali e religiosi.
Salvatore Licata
ROCCO INGRIA


Rocco Ingria nasce a Barrafranca il 18 gennaio 1912 da Emilio e da Silvia Angeli Coarelli. Sposatosi, il 26 ottobre del 1949, con Rosalia Presti, insegnante elementare di Aidone, ha avuto due figlie: Silvia e Vera.
Trascorre la sua prima gioventù a Palermo, presso i padri Salesiani, dove inizia gli studi liceali; studi che abbandona per conseguire, da autodidatta, la maturità magistrale a Piazza Armerina. Favorevolmente attratto dal mondo classico continua, in privato, a leggere tutto quello che trova sugli autori latini e greci, arricchendo così la propria cultura umanistica.
Dopo il diploma, va ad insegnare sulla Sila, in Calabria, poi, per qualche anno, a Calascibetta e, infine, a Barrafranca, dove rimarrà sino alla morte.
La scuola e lo studio gli rubano molto tempo ma, ciò nonostante, trova il tempo di occuparsi attivamente di politica militando nel Partito comunista italiano nel quale, aiutato dalla facile propaganda e dalla sua efficace e convincente oratoria, trascinò una considerevole massa di contadini. Nonostante questa sua fede politica, Ingria rimase molto vicino ai cattolici, tanto da mettere il Crocifisso all’interno della sezione e, nel periodo di Natale, prepararvi la novena.
«Rocco Ingria - scrive il professor Salvatore Ciulla -, non fu mai ideologicamente marxista. Si era schierato nella lotta politica a fianco di quel partito per un vecchio astio nei confronti della principessa Deliella, che egli ora voleva colpire al cuore attraverso le lotte contadine per lo spezzettamento del feudo e l’assegnazione delle terre ai braccianti e ai mezzadri. (...) Tanto è vero che Rocco non appena si vide, immeritatamente, un tantino messo da parte dalle gerarchie del partito, passò il “Rubicone” e si iscrisse alla Democrazia cristiana, con grave scandalo dei suoi ex compagni».
Muore, prematuramente, a Barrafranca, a soli 54 anni, il 15 ottobre 1966.
Dagli scritti di Rocco Ingria (Le Ceneri, Cantare è vivere, Gli ultimi folli); traspare chiara la cultura classica che è componente essenziale della formazione e della visione del mondo del poeta, anche se il riferimento agli antichi, sempre più vago e sfuggente, diventa spontaneo e serve a dare all’immagine, nuova e ardita, una suggestione particolare.
Oltre alle citate opere, Ingria pubblicò in “Uomini del nostro tempo” (Fiorenza Ed., Padova 1942) le liriche Marcia della Giovinezza. Di questi versi, purtroppo, non se ne trova traccia.
Malgrado le inesperienze, le effusioni, le diffusioni della sua prima ed acerba produzione, sin dal principio l’Ingria ha insistito su alcuni motivi di sentimento che poi era destinato a ripulire, a spogliare dalla ganga o dalle muffe e incrostazioni, per offrirli alla luce incontaminati e privi di imitazioni letterarie. E bisogna riconoscere che questo continuo rincorrere la propria poesia il poeta l’ha saputo attuare in maniera magistrale.
Nel poema Le Ceneri, in opposizione a I Sepolcri, dove il Foscolo elogia la sepoltura, la tomba, come mezzo per perpetuare il ricordo in eterno, Rocco Ingria auspica la cremazione per evitare la corruttibilità e la putrescibilità del corpo. Il poema, in versi liberi, fu pubblicato una prima volta nel 1937 ed era composto di circa 200 versi; nel 1940 esce una seconda edizione, ampliata a 300 versi, per conto dell’editore Fiorenza di Padova; infine, nel 1949, Rocco Ingria pubblica la versione definitiva, composta da oltre due mila versi.


Le Ceneri
nell’edizione del 1949


«Concependo e lirizzando Le Ceneri - scrive Rocco Ingria -, abbiamo voluto riaprire e chiudere un ciclo di letteratura, che ebbe nel Foscolo il più alto e sublime poeta». Nel suo poema, infatti, il poeta implora la cremazione dei corpi per dare il dono dell’incorruttibilità alla salma. «Il sepolcro - continua Ingria -, se non serra incorrotta salma è inutile e denso di pianto, per la terrificante consunzione del corpo. (...) Attorno a questa direttrice, substanziata dal Cristianesimo operante, dal dolore particolare all’universale, dall’Urna alla Salma, dal Mondo al Cosmo, tutto è cenere e sarà cenere».
In Cantare è vivere la poesia si fa più viva, più ricca di sentimenti umani; poesia che non si ferma alle apparenze, ma le oltrepassa perché in possesso della realtà che non è circostanziata e perciò diminuita, ma ampliata dal flusso delle umane vicende.
O Bruno, sprezzanti t’imposero tra / fiamme di gemme, la grande fiamma / che l’incenerisse, quelli, i pezzenti, / i ribelli graveolenti e ributtanti. / Tanti e tanti, poveri e derelitti / afflitti senza pane e senza casa / (...) / O Bruno, m’è fisso nel cuore il tuo / sguardo, fiero e possente, che dice ‘no’ / e scegliesti gli oppressi ad essi desti / una speranza ed una gran certezza. / Incenerirli? / Come, quando, perché Bruno, forse che / non siamo tutti creature di Dio?... (A Pontecorvo).
Via via la realtà si dissolve, si riduce a fuggitiva apparenza, traspare una sottile malinconia che, però, non si traduce mai in disperazione. La dissolvenza dei toni è dissolvenza di un paesaggio umano che gradualmente va spegnendosi nell’animo del poeta.
E in Luce e tenebre alza lo sguardo al cielo: Immensa, alterna tenebra, Signore! / Che dolore per l’alterno fluire / di luce e buio, che disperazione. / Credere e non credere e palpitare / d’angoscia che attanaglia cuor e pensier...
Credere e non credere, il grave dubbio; ed invoca Sempre Dio...: Dio, Dio e sempre voi dite, Dio... / non movete foglia che lui non voglia. / Dio in alto, in alto nell’immenso / del firmamento o nel fondo dei mari. / Dio sempre Dio ovunque vedete / e d’una fola vivete ed irridete / chi al vostro invisibile dio non crede. / Dio vede tutto? Dio vi guarda? Eppur che insensibile nume, Dio!...
Il messaggio poetico dell’Ingria è tanto più pressante e accorato, quanto più si muta e degrada l’ambiente naturale e culturale che è alla base della sua ispirazione, ma subisce una accentuazione di toni quando questo messaggio è rivolto verso i propri affetti, alla mamma. Ed ecco allora Bedda: Da noi Siculi ardenti a la fiamma / ch’assomma cor, bellezza, fragranza / Aroma di tutte le essenze, aitanza / di tutte le genti - e - a la mamma / felici e giulivi - coi brividi si dice: / ‘Bedda’ / Eppur tu di tutte le belle ‘bedda’ / di quelle di noi l’ovale del viso / il dolce sorriso, gli occhi profondi / i neri fulgenti capelli, i palpiti hai.
È facile sentirlo come un fratello, un contemporaneo, per l’apparente sregolatezza del suo linguaggio che invece è molto sottile e meditato. Ma oltre che sapere annodare le vicende più intime, più sofferte, Rocco Ingria sa parlare anche dell’amore, quello terreno, fatto di sensualità e di dolcezza, di scanzonata allegria e di palpitante tenerezza. Eccolo in Neofita: Ti piace? Sì, mi dicesti accesa / e ritentaron le labbra l’impudica / carezza... Oh che ebbrezza bimba / davi donata mai, mai più amata. / Vogliosa miravi piccola neofita / i misteri amorosi e l’occhio / lucea tutto e ti stringevi, gemevi / e mi piacevi più in quel mite / mugolio voluttuoso e nel dondolio / osceno ed insaputo o pupa. / Ti piace? Si dicevi e ridevi / d’un riso breve e lieve un velo / di pianto - tersa vela bianca - / veloce trasmigrava palpitante.
Oppure in Canzone a Nora: Non so che m’innamori / di te - di più - di più e sempre. / Il viso recline, l’ovale soave / del volto o quel fine sorriso? / Non so, non so, mai saprò / perché m’accendo così, perché. / Perché / tanto s’estasia il mio cuore!
Rocco Ingria, nella sua breve ma intensa vita, oltre che di poesia si occupa anche di teatro. Nella commedia Gli ultimi folli, traspare il suo impegno sociale, l’amore per la giustizia, quella vera, non quella usata ed abusata che a volte porta alla pazzia: Ecco. La pazzia è quistione di giustizia. Sì, di giustizia sociale! Di grande giustizia!. Dura condanna ad una società corrotta, disposta al sacrificio (degli altri) pur di vincere.
Scorrendo i dialoghi di questa commedia, certe soluzioni di scrittura, sia come rottura linguistica ed espressiva sia come opposizione ideologica molto radicale nei confronti dell’ambiente culturale che gli sta attorno, fanno di Rocco Ingria un caso singolare.

Salvatore Licata

domenica 28 dicembre 2014


Angelo Ligotti






Angelo Ligotti nasce a Barrafranca il 18 novembre 1910 da Onofrio e da Giuseppina Piazza. Sposatosi, nel 1948, con Anna Trubia, ha avuto un figlio, Onofrio. Ultimo di sei figli (Giuseppina, Maria, Benedetto, Rosa e Rosalia), Angelo Ligotti, compiuti regolari studi si iscrive a Medicina presso l’Università di Catania dove consegue la laurea in Medicina e Chirurgia il 1° novembre 1937. Si abilita, presso l’Università di Padova nel 1938 e, nel 1939, presso la stessa Università, si specializza in Malariologia ed in Igiene pubblica. Lo stesso anno è chiamato a dirigere il Laboratorio Provinciale d’Igiene e Profilassi, reparto micrografico, di Pola (Istria), incarico che però, nel 1940, è costretto a lasciare in quanto richiamato, come tenente medico, alle armi presso il 74° Fanteria di Pola.
Promosso capitano, nel 1942, viene assegnato alla direzione del laboratorio batteriologico dell’isola di Arbe (Dalmazia).
Nel corso della seconda guerra mondiale, Angelo Ligotti partecipa a diverse azioni belliche con il 2° battaglione del 74° Fanteria, con la 57° sezione di sanità e con il 63° ospedale da campo, meritando 3 Croci di guerra.
Dopo breve malattia, Angelo Ligotti muore a Barrafranca il 17 dicembre del 1984.
Nonostante il conflitto, il lavoro e l’amore per la  ricerca portano Angelo Ligotti ad approfondire i propri studi in campo sanitario, e batteriologico in particolare, tanto che le sue intuizioni furono oggetto di pubblicazione. La malattia di Aujeszky (o pseudorabbia, malattia virale del suino causata da un Varicellovirus); Sulla filtrabilità del bacillo di Koch (Mycobacterium tuberculosis, bacillo responsabile, nell’uomo, della tubercolosi); Sulla dissociazione batterica del bacillo di Eberth nei portatori (affetti cioè da febbre tifoidea provocata dal batterio della Salmonella); O jednom slucaju limfosarkoma rektuma (linfosarcoma rettale); Un caso di malattia di Aujeszki; Contributo sullo studio del tifo petecchiale (trasmesso dai pidocchi, ne è responsabile la Rickettsia prowazekii); furono lavori di notevole valore scientifico che incontrarono il favore del mondo scientifico di allora.
Tornato alla vita civile, consegue l’idoneità a medico provinciale e, dopo aver vinto il concorso a medico provinciale di ruolo, esercita le sue funzioni a Bologna, a Ragusa e alla direzione generale di sanità di Roma. Posto di fronte al dilemma tra una brillante carriera scientifica e l’amore per il proprio paese, Angelo Ligotti non ha dubbi: rinuncia alla carriera per fare l’ufficiale sanitario e il medico condotto a Barrafranca.
La grande passione per la storia e l’archeologia, però, gli fecero abbandonare le vie scientifiche cui aveva dedicato parecchio tempo e non poche fatiche. Ogni pietra, ogni coccio, ogni buco scavato nella roccia, rappresentavano per Ligotti una pagina di storia scritta secoli e secoli prima. Completamente attratto da questi studi, non perdeva occasione per intrufolarsi (anche durante le vacanze fatte assieme alla moglie) in una biblioteca o in un archivio a sfogliare documenti o atti che potessero fare luce sul passato del nostro territorio.
Le sue intuizioni lo portarono ad approfondite investigazioni e ricerche che divennero argomento di studio. Collaborò con Paolo Orsi in moltissime ricerche della Sicilia orientale. Fu anche con Biagio Pace, impegnato in una serie di indagini archeologiche in centri romani dell’Isola. A tal proposito, il Ligotti ebbe a scrivere sul “Giornale d’Italia”: «La luminosa giornata vissuta interamente ed intensamente accanto all’illustre archeologo Biagio Pace che proveniente dalla sua Comiso è venuto a Mazzarino ospite graditissimo del Sindaco Siciliano, della sua gentile consorte, di personalità ed amatori, ha avuto alla fine il gradito epilogo quando al ritorno dall’interessante gita a Sofiana (...) abbiamo avuto la sicurezza di collocare Philosophiana tra le città conosciute». Da queste parole traspare l’uomo, lo scienziato, l’amante appassionato della sua terra.
Numerosi sono gli studi pubblicati, tra il 1950 e il 1960, da Angelo Ligotti per la Società Siciliana per la Storia Patria o per l’Accademia Nazionale dei Lincei, che «rappresentano - scrive Litterio Villari -, un primo serio apporto sia alla ricostruzione storica di fatti e di avvenimenti verificatisi in antico nell’alta valle del Gela, e sia alla identificazione di alcuni toponimi di età sicula, greca e romana».
Numerose, dicevamo, furono le pubblicazioni che videro la luce nel corso dei suoi studi storici e archeologici. Prima fra tutte:
Topografia antica del “Casale” presso Piazza Armerina, dove il nostro storico fa uno studio accurato e scientifico della topografia del territorio dove si trova il Casale della villa romana. A questa pubblicazione seguirono:
Note sulla Chiesa di S. Niccolò “in territorio Commecini”, dove si descrive la corretta identificazione della chiesa, apparsa per la prima volta in un diploma del 1125, in passato posta “falsamente” in diverse parti della Sicilia, ma che in realtà deve localizzarsi nei pressi del bivio Sitica, dove sorge la vecchia casa Guerreri.
Note su Philosophiana e Calloniana alla luce di nuovi rinvenimenti archeologici ci descrive, con minuzia di particolari, i praedia di Philosophiana e Calloniana che si trovavano lungo l’antico Itinerarium Antonini, il tracciato cioè che congiungeva Catania con Agrigento.
Barrafranca (Enna) - Rinvenimenti archeologici nel territorio, panoramica descrittiva e fotografica dei rinvenimenti fatti, nel corso degli anni, nel territorio attorno al nostro centro abitato.
Notizie su Convicino (L’Hibla Galatina sicula, la Calloniana romana), detta poi Barrafranca, attraverso nuovi documenti, è di sicuro l’opera più importante di Angelo Ligotti, anche se noi non condividiamo qualche sua ipotesi. Sul sito di Convicino, infatti, molto è stato detto e molti sono stati gli storici che hanno creduto di individuarlo definitivamente. Per la verità l’unica cosa certa, e qui siamo d’accordo con Angelo Ligotti che non mostra dubbi, è che Convicino altro non è che la Calloniana di epoca romana, detta anche Ghalwàliya da Aziz Ahmad, Ghalûlia o Ghallûlia da Michele Amari. Dove, invece, non siamo d’accordo col Ligotti è quando, nel ricostruire i vari periodi storici di Barrafranca, e nell’identificare i siti, afferma che Calloniana sorse su un precedente Casale denominato Hibla Galeota o Galatina. Nel libro in questione, infatti, l’autore scrive testualmente: «Ora al nostro centro abitato, documentato da antichi diplomi dell’XI sec., che affonda le sue radici in un abitato romano e nella Galata interna sicula colonizzata dai greci, detta anche “Hibla Galeota” o “Galatina”, e che vitale in epoca Bizantina...» dando per certo il toponimo di Hibla al luogo dove poi sorse Calloniana. Diverse le tesi sostenute e i siti individuati da storici come Erodoto, Tucidide, Pausania e Stefano Bizantino. Quest’ultimo, addirittura parla dell’esistenza di tre Hible localizzandole, rispettivamente, nei pressi di Augusta, di Ragusa e di Paternò. Secondo noi, invece, l’antico toponimo greco di Hibla Galeota, o Geleotis come qualcuno la chiama, nulla ha da spartire con la nostra Calloniana o col nostro Convicino. La confusione della localizzazione del sito nel nostro territorio, sicuramente, sarà sorta da una trasposizione dell’Hybla Galeoti di Stefano Bizantino accomunata al feudo Galati e nulla più.
Su Grassuliato e su altri abitati dell’interno, e sul significato del nome “Bonifatius”, rinvenuto al “Casale”, ci ricorda l’importante centro abitato, “sorto come tanti altri abitati dalla disgregazione di un vasto predio romano-bizantino” e che successivamente decade fino a scomparire definitivamente.
Identificazione definitiva di Calloniana ripercorre un po’ i temi trattati in “Notizie su Convicino” soffermandosi sui motivi e sulla scientificità delle sue ipotesi per quando riguarda l’identificazione del sito ove sorse la Calloniana romana e delle sue attinenze con Convicino.
Barrafranca (Enna) - Rinvenimenti nel territorio si occupa dei reperti archeologici rinvenuti all’interno dell’abitato di Barrafranca e nel territorio circostante.
Note sul Risorgimento Siciliano con appendice di documenti inediti su uno sbarco Garibaldino (1854-1857) saggio sul risorgimento siciliano dove il Ligotti sostiene alcune tesi che si discostano dalla storiografia ufficiale e ci fanno vedere gli avvenimenti accaduti sotto un’altra luce.
Discussioni di storiografia siciliana medioevale, dove l’Autore contesta il fatto “che la storia della Sicilia, dalla prima metà del sec. XIV fino a tutto il XVIII ed oltre, sia caratterizzata da un lungo periodo di decadenza, durante il quale l’isola, come conseguenza della guerra del Vespro, sia rimasta estranea a tutta la vita italiana ed europea, isolandosi ed infiacchendosi in ogni forma di vita”.
Sul presunto toponimo aragonese di Grassuliato, breve saggio dove disquisisce sul toponimo di Grassuliato che, secondo lui, dovrebbe essere di origine araba o bizantina, mentre Adamesteanu, noto archeologo, lo vorrebbe aragonese.
La penetrazione cristiana nella zona di Barrafranca, Piazza, Pietraperzia e Mazzarino secondo le recenti scoperte, ricostruzione della penetrazione cristiana nel territorio di Barrafranca fatta attraverso i rinvenimenti archeologici.
Anche se non sempre ci troviamo d’accordo con alcune sue ipotesi, non possiamo non riconoscere la serietà degli studi e il rigore scientifico che caratterizzano tutte le opere del Ligotti. Ogni sua scoperta veniva meticolosamente vagliata; e solo quando aveva la certezza delle fondamenta delle proprie teorie metteva al corrente storici e archeologi di chiara fama, come Biagio Pace, Gino Vinicio Gentili e Ross Holloway, della Brown University.
A conferma della validità dei suoi studi, il ministero della Pubblica Istruzione, direzione generale delle accademie e biblioteche, con decreto ministeriale del 21 marzo 1960, nomina, per il triennio 1960/63 Angelo Ligotti Ispettore bibliografico onorario per le biblioteche dei Comuni di Barrafranca, Mazzarino, Gela e Butera, compresi nella circoscrizione della Soprintendenza bibliografica di Palermo. La carica gli viene riconfermata con decreto ministeriale del 18 maggio 1964.

Il dott. A. Ligotti, a sx, mentre riceve il Barrese d’Oro
dal vice prefetto di Enna dott. Gentile.

Per la serietà degli studi, archeologici prima e storici poi; e la notorietà assunta in campo nazionale, furono conferite al dottor Angelo Ligotti numerose onorificenze, tra cui, ricordiamo: Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica italiana; Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia; Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Giorgio di Antiochia; Grand’Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro; Accademico della biblioteca partenopea di Lettere, scienze ed arti; Socio delle Società di Storia Patria di Palermo, Catania, Siracusa, Messina e Napoli.
Angelo Ligotti, oltre che corrispondente di autorevoli riviste scientifiche, storiche, archeologiche e paleografiche, tra cui le riviste “Archivi” e “L’Alfiere”, è stato corrispondente dell’Accademia dei Lincei, delle Società di Storia Patria e dei rispettivi Archivi storici.

Salvatore Licata

Don Salvatore Russo





Salvatore Russo nasce a Barrafranca il 2 marzo 1893 da Girolamo e da Maria Stella La Zia. Poche, scarne notizie si hanno sulla vita e sulla missione di apostolato che condusse in Cina. Tutto ciò che siamo riusciti a sapere, lo dobbiamo ai pochi ricordi di qualche parente che, purtroppo, all’epoca era adolescente e quindi ricorda ben poco.
Dopo aver frequentato le scuole elementari di Barrafranca, Salvatore Russo si trasferisce a Piazza Armerina dove, seguendo la propria vocazione, frequenta il seminario vescovile. Il 16 luglio 1916 viene ordinato sacerdote da mons. Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina.
Nel 1918 partecipa, come Cappellano militare, alla prima guerra mondiale, al termine della quale, ritorna a Barrafranca ricevendo una calda accoglienza da parte dei fedeli.
Spirito missionario e intraprendente, don Salvatore Russo, ottenuto il permesso dai suoi superiori, partì come missionario per la Cina. Qui, tra non poche difficoltà, portò la parola di Dio ed evangelizzò, assieme ad altri confratelli, una vasta area dell’immenso territorio asiatico. Per essere più vicino alla popolazione, don Russo imparò a parlare e a scrivere il cinese svolgendo così la duplice funzione di evangelizzatore e di educatore. Numerose, infatti, furono le persone, soprattutto bambini, che grazie a lui impararono a leggere e a scrivere.
Arrivato in Cina mentre erano ancora in atto fermenti politici-culturali, don Salvatore si trovò a svolgere il suo ministero di evangelizzatore in un ambiente fortemente ostile, specie dal punto di vista religioso. Molti furono, infatti, i missionari cattolici perseguitati, incarcerati, torturati e, in alcuni casi uccisi. Anche don Russo ebbe a subire la persecuzione e, catturato, sottoposto a inaudite sevizie. Fu legato e bastonato a sangue fino a quando fu creduto morto. Nonostante le gravi ferite e lo stato di indigenza in cui era stato tenuto, riuscì a scappare e a rifugiarsi a casa di una famiglia cinese che, nonostante il grave pericolo a cui andava incontro, lo tenne nascosto in una fossa per circa tre mesi.
Grazie all’intervento di alcuni confratelli dell’ordine di San Vincenzo di Chicago riuscì a riparare in America, svolgendo il proprio ministero sacerdotale nella chiesa italiana di “San Filippo Bonizi”. Qui ebbe modo di incontrare diversi compaesani, tra cui un certo Gaetano “Taniddu” Piazza, suo amico d’infanzia, con cui trascorreva i pochi momenti liberi che aveva.
Da Chicago, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, padre Russo si trasferì a Filadelfia, sede dell’Ordine di San Vincenzo.
Durante la sua permanenza in America, don Russo, non mancò di aiutare la chiesa barrese. Diverse volte, infatti, inviò del denaro sia alla Parrocchia Maria SS. delle Grazie sia alla chiesa Madre per provvedere all’acquisto di arredi sacri o di quant’altro necessitasse alle due parrocchie.
Morì a Filadelfia l’8 dicembre 1959.
Salvatore Licata
Emanuele Pinnisi


Emanuele Pinnisi
in età giovanile

Emanuele Pinnisi nasce a Barrafranca il 4 marzo 1909 da Salvatore e da Annunziata Piazza. Sin dalla più tenera età Emanuele mostra una versatile inclinazione per l’arte in generale e per la scultura in particolare.
Terzo di una folta schiera di fratelli e sorelle, ben 16 (quattro nati da Annunziata Piazza e 12 da Crocifissa Faraci, seconda moglie del padre), Emanuele, dopo aver compiuto i primi studi nella sua Barrafranca, abbandona giovanissimo il proprio paese per cercare fortuna in terra straniera. Spirito libero ed di indole estroversa, Pinnisi cerca spazi per dare sfogo alla sua inclinazione, ma Barrafranca, evidentemente, era troppo piccola per permettergli di realizzare i suoi sogni. Ed allora cerca spazio altrove. Nel 1924, infatti, nonostante il padre cercasse di convincerlo a rimanere, si imbarca sul piroscafo che da Palermo lo porta a Buenos Aires, dove già si trova suo zio Filippo, fratello della seconda moglie del padre. Aveva appena 15 anni.
Nonostante le difficoltà incontrate subito dopo il suo arrivo, e in gran parte appianate dallo zio che lo ospita per alcuni anni, Emanuele Pinnisi trova lavoro e, nel 1939, ottiene la cittadinanza argentina.
Proseguendo quella che era la sua vocazione, si iscrive alla Scuola Superiore di Belle Arti Ernesto de la Carcova e studia disegno e scultura coi maestri Lino Eneas Spilimbergo e Josè Fioravanti. Alla fine del corso, nel 1953, si laurea a pieni voti in scultura e, subito, va ad insegnare nella scuola Manuel Belgrano prima e nella scuola Raggio di Buenos Aires poi.
Nonostante l’insegnamento gli avesse fatto raggiungere una posizione professionale e sociale notevole, le innate doti artistiche spinsero Emanuele Pinnisi a dedicarsi interamente alla scultura.
Nel corso degli anni Pinnisi matura alcune scelte tematiche e rivela i caratteri più intimi della sua scultura, conquistando un più solido senso del volume e della composizione.
A poco a poco l’Artista comincia a farsi strada, ad emergere e a primeggiare. È in questo periodo che conosce e sposa una giovane insegnante umbra-argentina, Maria Pierini.
Trasferitosi, agli inizi del 1969, a Mar del Plata, in una splendida villa con giardino, vi arriva già con l’aureola di prestigioso scultore. Di lui si occupano anche i più importanti quotidiani, tra cui El Trabajo che così lo presenta ai suoi lettori: Ese destacado escultor que es Manuel Pinnisi, se ha venido a radicar en Mar del Plata, para sumarse a la ya valiosa pleyade de artistas de nuestra ciudad. Su “corriculum” bastante extenso, nos exime de una presentación convencional. Porque Pinni-si es nombre nacional, y es una distinción más hacia “La Feliz” ésta que hace de venir a quedarse entre nosotros1.
Alejandro Castagnino, capo del Dipartimento delle Arti Plastiche del Ministero della Cultura Nazionale, così accoglie Pinnisi: Ademas de ser un autor de relevantes meritos, es un buen amigo2.


Madre coya
(cemento - 1952)



Neptuno 

Emanuele Pinnisi, pur partecipando ai movimenti d’avanguardia del Novecento, sovverte, con la sua opera, la visione prospettico-spaziale di origine rinascimentale abolendo la prospettiva tradizionale per un moltiplicarsi di punti di vista che esprimano il suo dinamico interagire con lo spazio circostante.
Il risultato è una scultura carica di emotività espressionisticamente deformata, scultura che però non rinuncia mai totalmente ai valori plastici, tutt’al più riproposti in chiave ironica e demistificata.
Parecchie le opere dedicate alla donna, un modo per esprimere il segno di devozione verso le madri, le mogli, le fidanzate di tutto il mondo o, in senso più profondo, alla biblica madre comune, intesa come progenitrice dell’umanità. Non a caso una delle sue opere più belle, Omaggio alla donna appunto, decora una delle più belle piazze di Mar del Plata.



 La Madre
(Museo Mar del Plata)

Poveri, ma essenziali, i materiali a cui Pinnisi affida le sue opere: pietra, legno, gesso, cemento. Ricchi e prestigiosi, invece, i premi che riceve, partecipando a numerose esposizioni.
Dal 21 settembre al 21 ottobre 1935, partecipa, a Buenos Aires, al: XXV Salón Nacional de Artes Plásticas, indetto dalla Direzione Nazionale di Belle Arti.
Nel 1940 riceve il premio di merito al Salone Nazionale di Buenos Aires, per l’opera Neptuno, a cui segue, nel 1947, quello del Salone Provinciale di Santa Fe.
Nel 1949 la giuria gli assegna il terzo premio al Salone di Bahia Blanca, mentre nel 1950 ottiene un altro premio di merito a Mar del Plata e a Tandil.



Donna che fugge
(Museo Mar del Plata)

Nel 1951 partecipa al 41° Salon Nacional de Artes Plàsticas e viene segnalato dalla Commissione Nazionale di Cultura. Lo stesso anno ottine il premio adquisicion[3] del Ministero de Hacien-da per la scultura Neptuno e viene nominato componente della Commissione Nazionale di Cultura.
Nel 1952 vince il primo premio al Salone di Mar del Plata con La madre, opera che si trova al Museo Municipale di Belle Arti della stessa città.
Altri premi adquisicion li ottiene dal Salone Municipale di Buenos Aires (1954) e dalla Commissione Nazionale della Cultura (1957).
Nel 1958 ottiene il secondo premio al Salone Nazionale di Bueenos Aires e il premio estimulo[4] al Salone di Tucuman.
Nel 1960, il Consejo Nacional de Educacion gli conferisce il primo premio per la sezione scultura; altri premi gli vengono assegnati al Salone di Mar del Plata nel 1970 e 1977.


 La Vittoria
(Museo Mar del Plata)

Le opere di Pinnisi figurano nei principali Musei argentini, come quello di Tucuman, Santiago del Estero, Rosario, Mercedes, San Luis, Mar del Plata, Museo “Eduardo Sivori” di Buenos Aires, Museo de la Plata, Bahia Blanca, ecc.
Artista di sicuro tratto, Pinnisi infonde nelle forme realizzate una singolare forza plastica. Le sue “teste”, i suoi “torsi” e le sue “figure”, di pietra, di legno o di gesso, rivelano il sereno ritmo interno dell’artista attraverso una grande espressività poetica.


E. Pinnisi in un momento di relax nel suo laboratorio

    Emanuele Pinnisi muore a Mar del Plata il 22 settembre 1981, col rammarico di non aver potuto rivedere la bella Italia e la sua Barrafranca, ma conscio di aver portato un pizzico di sicilianità in una terra lontana. Il suo corpo riposa nel cimitero monumentale di La Loma a Mar del Plata.
Il 24 settembre, così dava la notizia il quotidiano La Capital di Mar del Plata: En el cementerio de La Loma fueron inhumados ayer los despojos mortales del escultor Manuel Pinnisi, fallecido el martes pasado en esta ciudad, que habìa escogido como residencia...5



1     Quel distinto scultore che è Manuele Pinnisi, è venuto a risiedere a Mar del Plata, per aggiungersi alla già valida pleiade di artisti della nostra città. Il suo “curriculum” abbastanza vasto, non ci esime da una presentazione conveniente. Perché Pinnisi è uomo nazionale, ed è un’ulteriore distinzione che lo rende “felice” di venire a stare con noi.
2     Oltre ad essere un autore di grandi meriti, è un buon amico.
[3]     acquisizione.
[4]     di merito, di stima.
5     Nel cimitero di La Loma furono inumate ieri le spoglie mortali dello scultore Manuel Pinnisi, deceduto martedì scorso in questa città, che aveva scelto come residenza...

giovedì 25 dicembre 2014


Giuseppe Fantauzzo

  

Giuseppe Fantauzzo nasce a Barrafranca nel 1851 da Carmelo, ciabattino originario di Mazzarino, e da Agata Guarneri. Sin da bambino Giuseppe mostra interesse per il disegno e l’architettura, tanto che, durante i lavori di restauro della chiesa Maria SS. della Stella (1858), si recava spesso in chiesa dove il grande maestro Vincenzo Signorelli, aiutato dal fratello Salvatore, stava ornando di stucchi le pareti e la volta.
Il Fantauzzo, rimasto affascinato dalla bellezza degli stucchi e dell’opera del Signorelli, decise di intraprendere il cammino artistico del grande maestro e, alla sua morte (avvenuta nel 1876 a Barrafranca dopo aver terminato i lavori di decorazione della chiesa Madre), accettò consapevolmente l’eredità artistica.
Avviatosi alla professione di stuccatore e di indoratore, Giuseppe pensa anche a farsi una famiglia e, verso il 1873, sposa Assunta Guerreri che gli dà otto figli: quattro maschi (Giuseppe, Calogero, Carmelo e Salvatore) e quattro femmine.
Della vita e delle opere del Fantauzzo si sa poco. Le uniche che siamo riusciti a raccogliere le dobbiamo alla paziente ricerca del professor Gaetano Vicari, pronipote dell’Artista, che attraverso ricordi di parenti e visite sul campo ha cercato di ricostruire quel po’ di storia  artistica di Giuseppe Fantauzzo che tutt’ora conosciamo.


Particolare degli stucchi che abbelliscono
la chiesa M. SS della Divina Grazia


Il primo vero grande impegno artistico di Giuseppe Fantauzzo fu la decorazione della chiesa della Madonna dell’Itria, avvenuta fra il 1876 e il 1880, e che eseguì con l’aiuto del fratello maggiore Amedeo. Qui, gli stucchi, che coprono tutto l’interno, si sviluppano in un susseguirsi di fiori, festoni e angeli senza soluzione di continuità, come se gli uni rincorressero gli altri in un continuo sopravanzarsi. Anche se gli stucchi ricoprono tutta la volta e le pareti, l’ornato del decoro si presenta contenuto lasciando integra la struttura architettonica della chiesa, che risulta nitida e chiara. In alto la volta è divisa in cinque ovali che racchiudono pregevoli bassorilievi rappresentanti: l’Annunciazione, la Madonna dell’Itria, la Assunta, San Francesco di Paola e la Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù.
In questa sua prima opera si intravede l’influsso esercitato dal Signorelli, dove l’intreccio tra classico e barocco richiama quello della chiesa Madre, ma in alcuni bassorilievi della volta e nella parte absidale si nota un certo distacco dall’opera del suo maestro, distacco che comincia a fare intravedere l’affermazione della propria personalità artistica. «Nei bassorilievi della volta - scrive il pittore Gaetano Vicari -, il Fantauzzo con minimo sfoggio plastico, con gradazioni di piani appena percettibili, attraverso cui si realizza la prospettiva, raggiunge la massima densità di forma e di espressione».
Un altro importante lavoro realizzato, tra il 1880 e il 1890, dal Fantauzzo riguarda la chiesa di Maria SS. della Divina Grazia. Qui si afferma appieno lo stile del nostro artista che, libero ormai dell’influsso del Signorelli, dà sfogo alla propria fantasia e alla propria creatività, che troveranno il loro culmine nella decorazione della cappella del Seminario di Piazza Armerina. Qui l’insieme degli stucchi risulta quasi geometrico ed elegante, ma nello stesso tempo rivela una certa ingenuità sognante: ne scaturisce un grande senso di pace e di serenità, che invita al raccoglimento ed alla preghiera.


Carro trionfale disegnato dal nipote Musolino  per la festa della
Madonna del Mazzaro a Mazzarino

«Siamo di fronte ad un misconosciuto dell’arte italiana dell’Ottocento - continua il Vicari -, pur trattandosi di un artista d’incomparabili risorse di grazia, fantasia, fervore plastico e ornamentale. Egli, dopo essersi liberato dagli influssi del Signorelli, manifesta tutta la sua personalità, che assorbe i contrasti e le incertezze del suo tempo, rivivendoli con una personalissima impronta di serenità, di leggerezza e di delicatezza. A classificarlo basta quella specie di poema plastico che anima la chiesa della Madonna delle Grazie a Barrafranca, con pastoso e delicato congegno di statue, rilievi ed ornati».
Riconosciuto come valente adornista plastico, scultore, architetto e pittore, Fantauzzo viene chiamato ad eseguire importanti lavori di restauro a Caltagirone, Grammichele, Mazzarino, Pietraperzia e Aidone, dove, abbandonato dal fratello Amedeo, trasferitosi a Palermo, si fa aiutare dai figli Carmelo, Calogero e Giuseppe e dal nipote Antonino Musolino (autore, quest’ultimo, fra l’altro, delle statue poste davanti la facciata del teatro “Garibaldi” di Piazza Armerina e del disegno del Carro trionfale realizzato a Mazzarino, nel 1900, in occasione della festa della Madonna del Mazzaro).
A Caltagirone, assieme al fratello Amedeo, realizza, su disegno dello architetto Gesualdo Montemagno, gli stucchi della chiesa di San Giacomo.
A Grammichele Giuseppe Fantauzzo realizza numerose opere, tanto da farlo decidere a trasferirsi in quel paese con tutta la famiglia. E fu proprio qui che subì il primo incidente di lavoro, fortunatamente senza conseguenze: cadde da un ponte di legno mentre stava lavorando agli stucchi di una chiesa.
Ricevuto l’importante incarico di finire i lavori di restauro della chiesa di San Domenico di Mazzarino (1876), iniziati da Vincenzo Signorelli, il Fantauzzo si trasferisce in quella città dove continua il suo lavoro di stuccatore restaurando e arricchendo di stucchi la chiesa di S. Antonio abate (1879), l’Oratorio della Confraternita del SS. Sacramento (1883), la chiesa dell’Addolorata (1884), la chiesa del Signore dell’Olmo (1886) e “il Cappellone” della chiesa del Carmine (1899). Ma purtroppo, prima ancora di terminare i lavori, cade da un’impalcatura. Le conseguenze non sembravano gravi, tanto da decidere di passare un periodo di riposo a Barrafranca, ma non passarono otto giorni che la morte lo colse a soli 49 anni.
L’opera del Fantauzzo fu continuata dai figli Carmelo e Calogero e dal nipote Antonio Musolino, che riscossero lusinghieri consensi. Tutti e tre, infatti, furono chiamati, verso i primi del ’900, a decorare le navate laterali della chiesa Maria SS. della Stella di Barrafranca, la cappella della Madonna di Lourdes nella chiesa Matrice ed i saloni di palazzo Alberti a Mazzarino.
Con la morte di Carmelo, avvenuta nel 1906, a soli 27 anni, termina la dinastia artistica dei Fantauzzo. Salvatore, infatti, non si interessò mai di arte e andò a fare il segretario comunale a San Cono (Catania). Giuseppe, invece, alla carriera artistica preferì il sacerdozio; pur non di meno scolpì le edicole in legno che racchiudevano i quadri della via Crucis, dipinti dal Vaccaro. Di queste edicole, finemente traforate, e dei quadri della via Crucis, un tempo poste nella chiesa di San Benedetto, non si hanno più notizie.
Ma mentre a Barrafranca si estingueva il ramo maschile di Giuseppe Fantauzzo, a Parigi un altro Fantauzzo si faceva apprezzare come scultore. Si tratta di Carmelo Fantauzzo, di Vincenzo, forse nipote del nostro Giuseppe.

In una delibera del Consiglio comunale, datata 10 luglio 1910, infatti, leggiamo: «Il Consiglio visti i giornali di Parigi “L’Italia” e “Il Risveglio italiano”, dai quali risulta che il concittadino Fantauzzo Carmelo di Vincenzo, nella grande metropoli di Francia, si è affermato uno scultore insigne; ritenuto che il valoroso giovane deve a se stesso e al suo forte sentire la gloria conquistata; con voti unanimi scioglie un sentito tributo di lode al valoroso artista barrese, Fantauzzo Carmelo di Vincenzo, che ha saputo onorare la sua città natia col suo eletto ingegno; e manifesta ogni fervido augurio pel raggiungimento di quella meta che è l’ideale dei Sommi».
Salvatore Licata